L’immaginario letterario novecentesco è percorso da invadenti presenze animali, realistiche o surreali, metaforiche o simboliche, repertate all’interno di tramature narrative o poetiche, spie analogiche di fantasmi privati o archetipi collettivi, o protagoniste di moderni bestiari, deprivati dell’antico valore sapienziale. Abitano una terra di confine tra tradizione e reinvenzione anche gli animali parlanti della favola esopica che, a partire dall’«animalesca filosofia» e dall’appena abbozzato favolismo eretico pirandelliani, per attraversare la doppia pratica favolistica di Svevo nutrita di Darwin e Freud, più che di Esopo, vive nel secondo Novecento una nuova stagione, rivisitata come scrittura letteraria “in minore” e tuttavia, nelle umorali variazioni di registro, luogo privilegiato di espressione di un “mal-pensiero” che aspira a tradursi in una nuova anti-conformativa eticità. Dal furor del Primo libro delle favole di Carlo Emilio Gadda, al lucido nitore classico-moderno delle Favole della dittatura di Leonardo Sciascia e all’humor nero delle Favole del tramonto di Andrea Camilleri; dalla maliconica «autoeducazione» tardiva alla vita delle Settanta favole di Arturo Loria, al mondo fantastico apparentemente innocente delle Storie della preistoria di Moravia, agli aforistici apologhi Zen delle Galline pensierose di Luigi Malerba, e ai nonsesical Versi del senso perso di Toti Scialoja: una rilettura che, oltre le trappole ermeneutiche e le ambiguità del double coding favolistico, scopre i giochi intertestuali, le pratiche moderne e postmoderne del riuso e della riscrittura, le tensioni e gli umori sottilmente allegorici della scrittura novecentesca.
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