Indice
Le prime frasi del romanzo:
MAGGIO 1987
«Amore mio, svegliati.»
Angelica apre gli occhi e non vede nulla. La stanza è nera, il buio ha inghiottito ogni cosa.
Poi lo sguardo si abitua, e distingue i puntini di luce artificiale che filtrano dalla tapparella abbassata e, dal lato opposto, il rettangolo più scuro della porta. Subito dopo, la sagoma familiare del volto di sua madre, appena sopra di lei.
L’orologio sulla mensola segna le due e ventisei minuti. Angelica si stropiccia gli occhi, cerca a tentoni l’interruttore della lampada sul comodino.
«Mamma.»
Nel cono di luce morbida, il volto di Irene è scavato, ancora più duro e spigoloso di quanto appaia alla luce del giorno. È sempre stanca ed è diventata sottile, ha la magrezza tisica e famelica di chi non sta bene. Da quando si è ammalata, è diventata brutta. I capelli neri si sono spenti, sfilacciati, sembrano un casco di canapa, e gli occhi chiari bruciano sempre, come di febbre.
È brutta e sta male, ma è pur sempre la sua mamma.
Angelica alza la mano per farle una carezza.
«Mamma, hai l’insonnia?»
Irene annuisce sconsolata. Le capita sempre più spesso di non riuscire a dormire, e di notte molte volte Angelica la sente passeggiare avanti e indietro nel corridoio, mormorando qualcosa. All’inizio era convinta che pregasse, ma adesso sa che sua madre canta sottovoce una vecchia ninnananna, sempre la stessa, quella che canticchiava a lei per farla addormentare. Altrimenti non riesce proprio a riprendere sonno, e se non dorme poi sta ancora peggio.
Ha qualcosa nella testa, qualcosa che si è rotto.
Quando non passeggia e non canta sottovoce, Irene entra in camera di sua figlia e va a dormire con lei, proprio come quella notte. Angelica si rannicchia contro il muro, per farle spazio.
Ma Irene quella notte decide che non vuole dormire.
«Alzati, vieni con me.»
«Lasciami dormire. Domani devo andare a scuola.»
«Non importa, non ci vai. Glielo dico io ai professori. Alzati, dai.»
Angelica pensa che si metterà nei guai. Ché sua madre ai professori non può dire proprio niente, perché Irene con la gente non parla. Irene con gli estranei non sa più parlare.
Tuttavia si alza lo stesso, si mette in piedi accanto a sua madre.
Da vicino, si accorge che non deve più sollevare la testa per guardarla. Irene si è incurvata sotto il peso della malattia, e ormai non le sembra più così alta. Angelica ha quasi tredici anni, è alta come sua madre e le assomiglia. L’anno passato ha avuto le mestruazioni per la prima volta, ma Irene non lo sa, in quel periodo era in Svizzera a disintossicarsi dall’abuso di farmaci. Ce l’ha spedita suo marito. Enrico, il padre di Angelica. Quello che le ha comprato gli assorbenti e le ha spiegato come usarli, e le ha spiegato pure che il sangue era normale e non doveva spaventarsi. Quello che va a parlare con gli insegnanti e ogni volta torna a casa contento perché Angelica è brava e intelligente, studia e non dà mai fastidio. Quello che a sua figlia, adesso, fa pure da madre.
Irene la accarezza.
«Quanto sei bella, amore mio, come ti sei fatta grande.» Le trema la voce.
Angelica osserva bene la figura rachitica della mamma, c’è qualcosa che non va. Qualcosa che è ancora più sbagliato del solito.
È vestita. Niente pigiama, niente vestaglia, nemmeno la tuta.
Indossa pantaloni bianchi e una camicetta color pesca, e si è messa sulle labbra un velo sottile di rossetto chiaro. È riuscita a vestirsi da sola, è
riuscita persino ad abbinare i colori, ad azzeccare la stagione. Ma ha le scarpe spaiate, un sandalo estivo e uno stivaletto autunnale col bordo di pelliccia che con il resto non c’entra nulla.
Ma Angelica, quella notte, le scarpe non le guarda. Si accontenta di fissare sua madre in faccia, di vederla vestita e truccata, come una mamma normale. Come le mamme delle sue compagne di scuola, che sono sempre in ordine e sorridenti, che la invitano a pranzo e si informano se va bene in matematica e se bella com’è ha già il fidanzato, e non si addormentano mentre parla e non la scambiano per qualcun altro quando si dimenticano di prendere i farmaci.
«Usciamo, andiamo a fare una passeggiata.»
«Ma è notte.»
«E chi se ne importa.»
«Papà lo sa?»
«Papà dorme.»
Angelica pensa che non succede niente se escono dieci minuti. Ogni tanto lo fanno, quando Irene le chiede di accompagnarla in giardino. Stanno lì, girano intorno al prato e poi sul marciapiede, Irene qualche volta parla e qualche volta no, e se vede uno sconosciuto si stringe forte a sua figlia, abbassa la testa e aspetta che l’intruso se ne vada.
Ma ora è notte e di gente non ce n’è.
Angelica si veste in fretta e in silenzio, i pantaloncini blu da ginnastica e le scarpe da tennis, esce dalla stanza e attraversa il corridoio.
La casa è grande e buia e arrivare fino all’ingresso senza fare rumore è difficile. Segue sua madre, che invece si muove con sicurezza e all’improvviso sembra avere una tale fretta di uscire che raggiunge la porta senza controllare se Angelica le stia dietro o meno.
Alle due e quarantacinque del mattino, Angelica e Irene sono nel giardino condominiale. In giro non c’è nessuno, e anche a guardare in alto tutte le finestre sono buie. L’unica luce proviene dalla cameretta di Angelica, perché si è dimenticata di spegnere la lampada prima di uscire.
Adesso aspetta paziente che sua madre si stufi di stare piantata in mezzo all’erba. Deve tornare a dormire, perché domani vuole andare a scuola. C’è un ragazzo di terza media che forse le piace, si chiama Matteo. Ha i capelli chiari e gli occhi scuri, tutto il contrario di lei. Angelica sa che lui vorrebbe chiederle di mettersi insieme, è per questo che domani deve assolutamente andare a scuola. Ché se non ci va, magari Matteo si dimentica di lei e lo chiede a un’altra.
Al solo pensiero che potrebbe fidanzarsi con lui, Angelica, che non ha mai dato un bacio, arrossisce al punto che si vede anche da lontano nonostante il buio.
«Mamma, possiamo tornare su adesso?»
«Aspetta un pochino, ti prego.» Irene ha l’espressione concentrata e ansiosa, sembra quasi che stia cercando di ricordarsi qualcosa e che abbia poco tempo per farlo.
«Se papà si sveglia e non ci trova si arrabbia...»
Si arrabbia con me, vorrebbe dire Angelica. Si arrabbia con me che ti ho portato giù, mica con te.
All’improvviso Irene si rianima, punta un dito e indica qualcosa dall’altra parte della strada.
«Eccola, eccola lì!»
Ma non c’è niente, solo alberi appena piantati dall’aria misera e sfiatata, una fila di auto parcheggiate nei posti riservati e la ringhiera bianca che delimita la proprietà del condominio gemello.
Quando però sua madre sfila dalla tasca dei pantaloni le chiavi della macchina, Angelica capisce.
E diventa pallida che più non si potrebbe.