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La disfatta di Caporetto non fu certamente un caso fortuito, ma solo il frutto di un insieme di circostanze inconsuete. Il crollo della Russia zarista che uscì dalla guerra, consentendo ai tedeschi e agli austriaci di far affluire sul fronte occidentale nuove truppe, fu solo una di queste cause e nemmeno la maggiore. A essa si aggiunsero una nuova visione strategica e tattica dell’offensiva, le condizioni di prostrazione morale del nostro esercito provato dalle undici sanguinose battaglie dell’Isonzo, le incomprensioni e le incapacità dei nostri comandi superiori che, pur sapendo tutti i particolati di quello che sarebbe stato il grande attacco del nemico nulla fece per costituire una valida e resistente linea di difesa. Il risultato di questi fattori fu lo sfondamento delle nostre linee e la disastrosa ritirata di Caporetto, prima al di qua del Tagliamento, poi sulla sponda destra del Piave. Nonostante i primi bollettini parlassero di viltà dei nostri soldati, questi invece spesso si immolarono inutilmente, gettati in un calderone senza criterio, così come senza logica erano state tutte le precedenti battaglie dell’Isonzo, condotte con lo stesso inefficace e tragico metodo. La responsabilità di questo disastro è da attribuire soprattutto a tre comandanti: al generale Cadorna, il macellaio, e ai generali Capello e Badoglio, con le artigliere di questo ultimo che rimasero stranamente mute, perché solo lui si era arrogato il diritto di ordinare di far fuoco, ordine che per diverse circostanze non pervenne mai alle batterie. Tuttavia, l’unico a essere colpito da provvedimenti fu il comandante in capo, il generale Cadorna, un uomo privo di elasticità strategica e tattica e che tuttavia consentì con le sue disposizioni che la ritirata non si tramutasse in una rotta irrefrenabile. In effetti con il disastro di Caporetto venne finalmente meno una condotta all’offensiva della guerra basata su metodi ottocenteschi, cioè con attacchi frontali su un largo spazio, preceduti dal fuoco dell’artiglieria. Eppure l’ipotesi di uno sforzo basato su spazi ristretti, cioè il classico colpo di mano estensibile in caso di successo s una più ampia parte del fronte (tanto per intenderci il metodo utilizzato dal nemico a Caporetto) non erano mancate e giustamente Armando Rati ricorda la vicenda di Carzano, in cui, grazie alla complicità di alcuni militati bosniaci, ci venne offerta su un piatto d’argento la possibilità di arrivare in pochissime ore a Trento e di puntare decisamente più a Nord, il che avrebbe obbligato il nemico a sguarnire il fronte carsico, così che, con un’azione coordinata, avremmo potuto sfondare anche là e mettere l’Austria in condizioni di chiedere la pace. Qualcosa si fece, ma fu un abbozzo, ben poco studiato, senza coordinamento, così che l’azione abortì appena nata. Ritirato oltre il Piave, arroccato sul Grappa, il resto del grande esercito italiano, al cui comando fu posto il generale Diaz, con l’aiuto più formale che sostanziale degli alleati (prima di impegnare loro divisioni vollero vedere se saremmo stati in grado di arrestare l’avanzata nemica), quei soldati che ingenerosamente erano stati tacciati di viltà diedero forse la migliore prova che ci è capitato di vedere nelle guerre combattute dopo l’unità d’Italia. Non più chiamati a conquistare, ma a difendere si batterono come leoni, contro un nemico preponderante, e l’offensiva austriaca si arrestò così davanti al Piave. Con la leva del ’99 si rimpolparono i reparti, una nuova linfa vitale rigenerò l’esercito, la nazione ritrovo un’unità come non c’era stata nei mesi precedenti. Insomma, vennero a nascere tutti i presupposti per un nostro grande riscatto, che puntualmente avvenne l’anno successivo. Armando Rati è assai bravo nel descrivere i fatti, i perché, i come di questo anno disperato, senza tacere nulla, mai ricorrendo all’enfasi e alla retorica, insomma fornendo un quadro di storia militare di pregevole valore.
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