Le interviste di Wuz.it

Ilide Carmignani: nella traduzione di romanzi-mondo ti serve non solo quello che hai tradotto o letto, ma tutto quello che hai conosciuto in vita tua

Ha tradotto alcuni tra i più famosi scrittori ispanofoni, tra cui Neruda, Márquez,  Bolaño, Borges e Sepúlveda. Da anni lavora con le maggiori case editrici italiane tra cui Mondadori, Adelphi e Feltrinelli.
In questa intervista abbiamo chiesto a Ilide Carmignani di parlarci della sua professione e della sua ultima prova di traduzione, quella del romanzo I detective selvaggi di Roberto Bolaño. 


WUZ -  Innanzitutto mettiamo subito in chiaro che non è la prima volta che traduci un’opera – mastodontica - di Roberto Bolaño (2666 con oltre 900 pagine o Il terzo Reich di ""solo"" 325 pagine), ma in ogni caso tenendo tra le mani I detective selvaggi il mio primo pensiero è stato “che lavoro immane”! Un impegno incredibile scriverlo, ma altrettanto, se non più, tradurlo. Un impegno che può affrontare solo un traduttore d’esperienza come te, una persona che conosce bene anche quell’universo narrativo dell’America latina alle prese con le dittature, con la crisi di identità, con le rivoluzioni sociali e culturali. È vero? Quanto pesa la cultura, l’esperienza personale di un traduttore di fronte a una sfida come questa? Quali sono stati i tuoi lavori (o le letture) precedenti che ti sono serviti o a cui hai attinto per questa traduzione?

Ilide Carmignani fotografata da Arianna SanesiÈ difficile dire che cosa serve nella traduzione di romanzi-mondo, come sono stati definiti dalla critica libri tipo 2666 o I detective. Potrei rispondere: mi sono serviti tutti i libri latinoamericani e spagnoli che avevo tradotto in precedenza, anzi tutti i libri latinoamericani e spagnoli che avevo letto in precedenza, e i manuali di storia e di letteratura, e i giornali e le riviste, e i film e le canzoni e gli spettacoli teatrali e le opere d’arte, e i viaggi che ho fatto e gli amici che ho laggiù o che sono di laggiù, ma sarebbe comunque poco perché tutto questo mi ha aiutato soltanto nell’interpretazione del testo e invece poi, ad aspettarmi al varco, c’era la prova più difficile e cioè la riscrittura, e lì per restituire appieno l’originale si trattava innanzitutto di ricreare lo stile di Bolaño e di mantenerlo in tutte le sue infinite variazioni nel corso di un’opera particolarmente lunga e densa, modulando in italiano una voce che, per esempio, tenesse il ritmo di quel suo meraviglioso periodare.
Non vorrei scivolare nel patetico ma in quel momento ti accorgi che ti serve non solo quello che hai tradotto o letto, ma tutto quello che hai conosciuto in vita tua. E vorresti aver conosciuto molto di più.

WUZ - Del romanzo è stato scritto che è “simile a uno stadio dove la gente entra ed esce in continuazione”, lo stesso Bolaño ha scritto che il romanzo possiede tante letture quante sono le voci che contiene. Come hai affrontato questa pluralità di voci?

Sì, è vero, I detective selvaggi è come uno stadio dove la gente entra ed ed esce in continuazione, magnifica metafora di Juan Villoro, che era amico di Bolaño fin dai tempi dell’università e che molto generosamente mi ha aiutato a risolvere alcuni dubbi di traduzione.
In effetti non è stato facile affrontare una così straordinaria ricchezza linguistica: si passa come sulle montagne russe dal linguaggio alto e intricato di accademici e poeti alle più schiette voci popolari, e non voglio entrare nel merito dei cosiddetti volgarismi, le parolacce insomma, che pur essendo nata e cresciuta in Toscana e quindi, per così dire, naturalmente esposta a un discreto repertorio, mi hanno spesso fatto difetto in italiano. E non mancano nemmeno i linguaggi settoriali, anche se 2666 in questo senso mi aveva messo ancor più alla prova con, ad esempio, il lessico medico-legale e pugilistico e bellico. Poi ci sono i gerghi, quello della malavita, quello della polizia, per di più leggermente desueti perché risalenti al periodo in cui Bolaño viveva nel DF e cioè gli anni Settanta.

Un’altra difficoltà è stata senz’altro la pluralità di voci dal punto di vista geografico: voci messicane, peninsulari, cilene, argentine e naturalmente di tanti altri paesi latinoamericani.
Ci sono varianti dello spagnolo che da un lato consentono a Bolaño di caratterizzare i personaggi anche in base alla loro provenienza, e dall’altro permettono alla voce narrante di evitare le ripetizioni, sinonimizzando il lessico con termini provenienti da aree diverse, senza mai tradire il registro colloquiale. Nel primo caso è molto difficile restituire appieno le sfumature, a meno che non caratterizzino anche la classe sociale (a volte le espressioni “dialettali” indicano semplicemente un’estrazione più bassa) grazie a metodi di compensazione. Un tempo si faceva ricorso ai dialetti italiani, ma oggi il lettore è troppo smaliziato per non trovare straniante un messicano che parla milanese o un cileno che parla napoletano.
Nel secondo caso
, si può provare a ricorrere con grande delicatezza, per esempio, ai pronomi e a qualche colpetto di forbice.
Più in generale, davanti alla ricchezza espressiva di una lingua vivacissima parlata da cinquecento milioni di persone, si avverte con particolare disagio la rigidità dell’italiano sui registri colloquiali o gergali; se non si fa attenzione si scivola subito nel regionale, che di nuovo sarebbe straniante. Paradossalmente può essere più facile tradurre testi alti, aulici, che non muoversi su una lingua come quella di Bolaño. Ma con questo genere di ostacoli mi ero già scontrata traducendo un autore a me molto caro come Luis Sepúlveda.

WUZ -  Come hai lavorato a questo testo? Come procedi? Leggi prima tutto il romanzo (magari l’avevi già letto in precedenza) e poi inizi la traduzione o avanzi per capitoli? Insomma, mi puoi sintetizzare i passaggi e i tempi (quanto tempo è stato necessario per terminare la traduzione?) di questo lavoro?

Ho impiegato due anni a tradurre I detective e, come sempre, ho lavorato per stesure.
Inizio traducendo a voce alta al registratore, così posso concentrarmi solo sul testo, non devo preoccuparmi di scrivere. Sono una dattilografa molto goffa: da ragazzina avevo fatto un corso ma poi sono andata a studiare negli Stati Uniti e la tastiera laggiù è diversa, per cui ho completamente disimparato a battere sui tasti senza guardare e perso ogni voglia di imparare di nuovo. Questa prima stesura però è solo una specie di lettura approfondita, ancora a cavallo con lo spagnolo, una sorta di versione interlineare con mille appunti, cerchi, frecce, sottolineature sull’originale.
Dopodiché
utilizzo questa base per fare una vera prima stesura con i dizionari, una fase dedicata a verificare, approfondire, esaurire i significati linguistici dell’originale.
La terza stesura
invece inizia a staccarsi dallo spagnolo e comincia a considerare la resa italiana, a partire per esempio dall’eliminazione dei calchi lessicali e sintattici (quando si resta troppo vicini all’originale scrivendo cose sbagliate o che semplicemente non diremmo mai se ci stessimo esprimendo direttamente in italiano).
In sintesi, ogni fase affronta una diversa tipologia di problemi, per esempio non potrei mai decidere di sinonimizzare un termine, scelta stilistica, durante la seconda stesura quando sono ancora tutta immersa nella decifrazione dell’originale.
La quarta stesura mira al raggiungimento di una sorta di autonomia
, nel senso che non mi piacciono le traduzioni-stampella, quelle che non stanno in piedi da sole e acquistano senso unicamente a fronte dell’originale.
Quanto alle riletture, ho smesso di contarle.
Come diceva Borges: il concetto di testo definitivo - io potrei dire di traduzione finale - appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza.

I detective selvaggi, di Roberto Bolaño. Leggi la recensione del libro.
WUZ -  Come si riesce a tradurre un romanzo di quasi 700 pagine tenendo sempre presente l’insieme, ma lavorando sul particolare? Cioè, come si riesce a mantenere la visione d’insieme dell’intera vicenda lavorando ogni giorno sui singoli paragrafi? Quanto si rischia di deviare dalla traccia originaria, e come si riesce a evitarlo?

Si riesce a mantenere lo sguardo d’insieme passando e ripassando su tutto il libro di continuo, lavorando come dicevo per stesure, e prendendo tanti appunti. Io, per esempio, faccio liste di traducenti in modo da non perdere di vista la coerenza interna, insomma se si decide all’inizio di tradurre cara con faccia invece che con viso, la scelta va mantenuta per tutte le mille cartelle del libro. Ci vuole una concentrazione che non stento a definire ossessiva, e molta memoria linguistica, e uno sconfinato amore per le parole.

WUZ -  I detective selvaggi è stato pubblicato in Italia da Sellerio nel 2003 con la traduzione di Maria Nicola. Hai letto questa traduzione? Ti sei confrontata con le sue scelte o hai lavorato in parallelo come se l’opera non fosse stata mai tradotta?

Ho lavorato per conto mio, senza guardare niente, perché non volevo restare condizionata da altre interpretazioni, e quando, dopo la quarta stesura, mi è sembrato di aver messo perfettamente a fuoco il testo originale, la sua voce italiana, ho consultato le traduzioni straniere: francese, inglese, tedesca, portoghese. Come al solito, malgrado tutti gli sforzi, ho trovato qua e là soluzioni più convincenti, che ho accolto con gratitudine nella mia traduzione. Solo allora, a lavoro finito, ho letto la traduzione Sellerio, perché credo sia fondamentale conoscere la ricezione italiana del libro su cui si lavora, fosse anche solo per distaccarsene. In linea di massima penso di aver adottato un approccio più orientato al testo di partenza, meno incline alle equivalenze funzionali, per esempio davanti al gergo della malavita in voga nel DF degli anni Settanta io ho preferito lasciare i termini originali invece d’inventare parole italiane inesistenti. Naturalmente questo richiede un lettore meno ingenuo, un lettore che non si fa spaventare da un termine spagnolo in corsivo. Inoltre la lingua di Bolaño mi è apparsa più colloquiale (là dove è colloquiale, perché ci sono anche passi molto alti) rispetto all’interpretazione di Maria Nicola, perciò i miei Detective selvaggi hanno ad esempio meno congiuntivi, nei casi ovviamente in cui il congiuntivo è una scelta di registro.

WUZ -  Conosci i luoghi in cui è ambientato il romanzo o li hai immaginati via via?

Ero stata nel Nord del Messico nei primi anni Novanta, quando avevo molto tempo e nessun figlio, un lungo giro in treno per vedere la Barranca del Cobre, viaggio meraviglioso. Nel DF invece sono stata solo qualche anno fa, in una specie di pellegrinaggio laico, cercando le strade e i bar di Bolaño: calle Bucareli, il caffè La Habana, e anche i bagni della UNAM dove è ambientato AmuletoLo scrittore, in fondo, traduce la realtà in parole e per me è stato bello vedere quelle parole ritrasformarsi in realtà.

WUZ -  Che idea ti sei fatta “dall’interno” (vedendo “lo scrittore nudo” come hai affermato in passato) di Roberto Bolaño? Come giudichi il suo uso della lingua, la costruzione della frase e della storia?

Bolaño tratta moltissimi temi - l’arte, la memoria, il coraggio, la dignità, la follia - ma tutto, secondo me, tende a ruotare intorno a due nuclei fondamentali che si intrecciano strettamente: il Male e il Caso, due nuclei che si ripercuotono anche sullo stile.
Scrive Bolaño nei Detective: «Il nocciolo della questione è sapere se il male (o il delitto o il crimine o come vuol chiamarlo) è casuale o causale. Se è causale, possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità, più o meno come per due pugili dello stesso peso. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto.»
Per Bolaño la vita è caos
, ecco forse perché sul piano del plot non ci offre mai un libro lineare, con un inizio, uno sviluppo della trama e un finale, ma un andamento rizomatico con mille storie che si intrecciano e che iniziano in medias res o hanno lacune intermedie o finali aperti, e che solo a volte trovano completezza in altre opere.
Se tutto è caso, un romanzo che rispecchia la vita è destinato all'incompiutezza
. Così, anche sul piano dello stile, Bolaño tende a raccontare, non a spiegare.
In 2666, il libro più maturo, dove il tema del male sembra investigato appieno, colpisce l’abbondanza di nessi temporali a scapito di quelli causali, consecutivi e finali.

Lo stesso accade con la ripetizione, che si ritrova sia sul piano narrativo sia sul piano stilistico.
Sul piano narrativo
si declina come variante (storie che si ripetono in più libri o che vengono “rifratte”, per esempio le testimonianze centrali dei Detective) e come catalogo (gli elenchi di poeti dimenticati, di generali della Seconda Guerra Mondiale, di fobie).
Sul piano stilistico
, invece, la ripetizione è così insistita che arriva a svolgere una funzione quasi di rima, di richiamo per non perdersi in un fraseggio ora paratattico ora ricco di subordinate ma sempre fluidissimo, come liquefatto dalla punteggiatura che si sottrae alla sua funzione scolastica di scansione logica e segna solo gli incisi, rendendoli più pregnanti. Anche le virgolette scompaiono spesso dai dialoghi, scanditi semplicemente dalla ripetizione del “disse, disse, disse”. È molto interessante vedere così da vicino come si rispecchiano macrocosmo e microcosmo di uno scrittore.

di Giulia Mozzato


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