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Libri di Maria Boiardo Matteo

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Maria Boiardo Matteo

(Scandiano, Reggio Emilia, 1440 o 1441 - Reggio Emilia 1494) poeta italiano. Di nobile famiglia, rimasto orfano di padre a dieci anni, intorno al 1460 assunse l’amministrazione dei beni familiari, ma le liti patrimoniali con i parenti lo costrinsero a trasferirsi nel 1476 a Ferrara. Qui da Ercole I d’Este ebbe incarichi e onori: dal 1480 al 1483 gli fu affidato il governatorato di Modena, dal 1487 alla morte quello di Reggio Emilia. Il nonno Feltrino Boiardo e lo zio materno Tito Vespasiano Strozzi, umanista e poeta, gli avevano garantito un’educazione letteraria di tipo umanistico, condotta su scrittori latini e volgari; B. la mise precocemente a frutto in un encomio cortigianesco, i Carmina de laudibus Estensium (1463 ca). Nelle 10 egloghe dei Pastoralia (1464), virgiliane per modi e contenuti, già si delinea il gusto pittorico di B., la tendenza allo scorcio e alla descrizione di paesaggi idillici con sfumature quasi fiabesche. Mere esercitazioni, probabilmente con finalità didattiche, sono invece i volgarizzamenti di Erodoto, Senofonte, Cornelio Nepote, Apuleio. L’esordio poetico in volgare è segnato dal canzoniere, intitolato Amorum libri tres. Ispirato dall’amore per Antonia Caprara, composto e rielaborato dal 1469 al 1476, costituisce il più importante risultato della lirica volgare quattrocentesca. Di calcolata struttura (180 rime divise in 3 libri, che cantano rispettivamente le gioie, le pene e i rimpianti d’amore, comprendenti ciascuno 50 sonetti e 10 componimenti diversi, con gusto compiaciuto di forme metriche meno comuni), ha per referente principale Petrarca; ma spunti e suggerimenti derivano da Giusto de’ Conti come da Virgilio, Orazio, Tibullo. Cifra originalissima del canzoniere è tuttavia, al di là di ogni modello letterario, il decorativismo prezioso e tardo-gotico, innestato su una vivissima sensibilità paesistica, incantata, con felice adesione esistenziale, di fronte alle luci e ai colori della natura. Essenzialmente lirico e immaginifico fu, appunto, il temperamento di B., sicché le prove drammatiche - quale il Timone, tratto da un dialogo di Luciano e approntato per la corte estense - furono povere di vera tragicità e di qualsiasi vivacità stilistica.Al poema cavalleresco, un genere seguito con passione e incoraggiamento da Borso ed Ercole d’Este, B. si accinse nel 1476: nel 1482 erano già compiuti i primi due libri, di 29 e 31 canti, dell’Orlando innamorato. Gli impegni amministrativi, forse i tempi mutati, distrassero il poeta dalla continuazione, e la composizione del III libro riprese stancamente per interrompersi alla vigilia della morte, alla stanza 26 del canto IX; da questo punto, qualche decennio dopo, l’Ariosto riprese l’argomento per il suo Orlando furioso. La novità dell’Orlando innamorato rispetto alla tradizione precedente consiste, più che nella raggiunta fusione di motivi dei cicli carolingio e bretone, già sperimentata in testi francesi e italiani del secolo precedente, in una superiore tensione narrativa. Nostalgia per il mondo cavalleresco, gusto dell’avventura e della fiaba, ammirazione umanistica per l’energia, anche fisica, dell’eroe, amore (impersonato soprattutto dalla figura di Angelica, fuggitiva ma concreta immagine di bellezza): questi i motivi che si alternano nel poema, senza che l’uno o l’altro di essi domini sugli altri. Elemento unificatore di una serie interminabile di avventure ed eventi, altrimenti disgregati, è, caso mai, la presenza di veri e propri «luoghi narrativi» della vicenda - gli assedi di Albracca e di Parigi, la ricerca di Angelica -, lungo i quali si coordinano storie, episodi e gesta dei personaggi. Allo stesso modo il flusso inesausto del racconto e la dimensione atemporale del meraviglioso romanzesco riaggregano, conferendole una superiore coesione, la trama polimorfa, perennemente aperta all’inserzione di nuovi elementi. Alla varietà di toni e motivi risponde il plurilinguismo del poema: un «emiliano illustre», duro e vigoroso, svariante dal livello aulico a quello popolare, discusso e respinto a torto dai letterati del Cinquecento, che preferirono leggere l’Innamorato nei rifacimenti in bella forma toscana di F. Berni e, soprattutto, di L. Domenichi.

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