Le recensioni di Wuz.it

Stato di crisi - Zygmunt Bauman, Carlo Bordoni

Qualsiasi evento negativo, soprattutto se riguardante il settore economico, è “colpa della crisi”. Un’attribuzione di responsabilità assolutamente spersonalizzata, che libera gli individui da ogni coinvolgimento e fa riferimento a un’entità astratta, dal suono vagamente sinistro.

Questo non è un libro facile.
Non lo è per l’argomento – tremendamente attuale, eppure oltremodo radicato nella nostra storia; visceralmente sentito nella nostra quotidianità, eppure evitato quasi sempre, in nome di una fideistica e molto umana concezione ottimistica del domani.
Non lo è per gli autori – Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni: il primo, uno dei più grandi sociologi viventi, nonché geniale teorizzatore della modernità liquida (in cui i confini e i riferimenti sociali si perdono, e il potere si allontana dal controllo delle persone); il secondo, brillante professore fiorentino, acuto osservatore dei fenomeni sociologici più complessi della contemporaneità.
E non lo è per la tesi di fondo – quella cioè secondo la quale la crisi in cui versa il nostro mondo occidentale non è affatto momentanea, ma il segno di un cambiamento profondo, che coinvolge tutto e tutti, con effetti di lunga, lunghissima durata.
Dicevo, non è un libro facile: ma proprio per questo è un libro fondamentale.
Fondamentale perché oggi la crisi è al centro del dibattito pubblico: un dibattito troppo spesso caotico, colpevole e ridondante.
Un confuso coacervo di strilli isterici, attribuzioni di responsabilità sempre più alte, rimpalli continui a chi ha sbagliato di più; ma nessuna chiarificazione; figuriamoci qualche soluzione sensata.
Bauman e Bordoni partono da lontano, in questo bel libro Einaudi: e lo fanno in poco meno di 200 pagine, riuscendo perfettamente a spiegare che cosa ci sta davvero succedendo e perché, in una lucida e coinvolgente disamina delle dimensioni politiche, sociali e culturali del malessere del nostro tempo.

Si parte da uno spaesamento, da un impercettibile movimento cognitivo: oggi, dicono gli autori, vige uno «statalismo senza Stato».
Lo Stato ha cominciato a cedere le sue prerogative (quelle per cui si autofondava!) ai privati e alle forze del mercato: ha iniziato a esternalizzare, a delegare, a sub-appaltare, a deresponsabilizzarsi.
Eppure, mantiene le stesse pretese nei confronti di coloro i quali vengono governati. Indottrina per creare la domanda, fa incontrare merci e consumatori, incoraggia l’individualità come risorsa auspicabile per il moderno scenario liquido. Lo Stato sociale invece è stato liquidato: i problemi sono altrove, ma le soluzioni si debbono trovare a livello locale. Il capitale è inoltre diventato indipendente, fluttua indisturbato nello spazio dei flussi: tutto è lontano, tutto è oramai al di fuori dal nostro controllo. Le direttive sono “europee”, le tasse sono “imposte dall’alto”, il giro di vite “ce lo chiede Bruxelles”, la crisi è causata “dai futures”… Si, ma allora di chi è la colpa? Chi è il nemico? E, soprattutto, dov’è?

Il potere (la possibilità di fare le cose) e la politica (decidere cosa sia meglio fare) hanno divorziato per sempre.

Non solo. Le promesse della modernità, la sicurezza, il progresso continuo, il welfare garantito per tutti, sono state messe da parte, tradite, schernite.
La verità è che abbiamo abbandonato le illusioni giovanili della modernità, che la Grande marcia dell’umanità non è mai iniziata, che l’orgia consumistica ha trasformato le utopie originarie in utopie di nicchia, e che nessuno ci mostra la strada da seguire.
Ma la cosa più dura da accettare è che le crisi non possono più essere definite temporanee: ci avevano promesso la felicità in cielo con il cattolicesimo, quella sulla terra con l’etica calvinista, quella attraverso i consumi con la commedia borghese, quella esibita attraverso i social network. Eppure, ci dicono gli autori, stiamo annaspando alla ricerca di nuove strutture cognitive, perché quelle che avevamo non reggono più.

L’economia è diventata padrona: la crisi economica ristabilisce il controllo sociale, e la flessibilità è nuova strategia di dominio.
Il vecchio proletariato è diventato il nuovo precariato, il vecchio capitale è diventato la nuova finanza: non ci sono più padroni concreti e combattibili, ma nemici aleatori, inconsistenti, nebulosi.
Siamo stati sempre abituati a pensare che ognuno debba fare il proprio dovere, affinché lo Stato funzioni: così si creano – e si sono sempre creati – emarginati e privilegiati, ma non importa, no? La differenziazione sociale è sempre stata fondante, insieme alla coercizione di weberiana memoria, affinché il Leviatano, orribile mostro biblico e personificazione dello Stato assolutistico, potesse continuare a ruggire.
E il ruggito dello Stato-Leviatano è sempre stato sacro: tutto ha sempre funzionato. Abbiamo barattato la nostra libertà in cambio della sicurezza, abbiamo ceduto la concezione economica borghese in cambio del germe della repressione.
Perché, in fondo, l’idea di Stato è la nozione secolarizzata di concetti teologici. Lo Stato può. E può per un bene superiore: il nostro. Ebbene, l’inizio del declino è dato anche dalla messa in dubbio di questo principio assoluto, dal ripensamento del contratto sociale tra il Leviatano e la moltitudine.
Non abbiamo più fiducia nella capacità dello Stato di risolvere la situazione e individuare una via d’uscita. L’impotenza degli esecutivi accresce il cinismo e il sospetto dei cittadini, innescando una triplice crisi: della democrazia rappresentativa, della fiducia nella politica e della sovranità dello Stato. Dove stiamo andando, oggi?
«Rousseau ha messo in guardia contro la facile tendenza a delegare ad altri la sovranità popolare per pigrizia, per attendere ai propri affari, per impegni familiari o semplicemente per sdegno: una cattiva scelta che ha conseguenze letali sulle libertà personali». Ecco, la fine delle grandi narrazioni è arrivata, la Storia non è più una maestra, la società di domani è una società senza memoria.
Una società sommersa e nascosta, di gente qualunque che esce dalla comunità massificata di certezze e non ha più punti di riferimento.
Siamo condannati alla solitudine di fronte a pericoli condivisi: finita la grande abbuffata, finita la collettività. L’individuo è di colpo solo.

Un dialogo serrato, colto e affascinante, che fornisce chiavi di lettura inedite – e utili, e chiarificatrici! a quello che ci sta succedendo ora.
Che sta succedendo a tutti, nessuno escluso.
Comprendere il presente per preparare il futuro. Questa è la grande lezione che ci consegnano Bauman e Bordoni. Perché forse, il vero problema, è che nessuno spettro, di qualsivoglia tipo, si aggira più per l’Europa.


Recensione di Martina Gambarotta

Le immagini a corredo dell'articolo raffigurano installazioni degli artisti britannici Tim Noble e Sue Webster

Stato di crisiZygmunt Bauman, Carlo Bordoni
trad. di L. Chiesara
198 pagg., 18 euro - Einaudi
ISBN 9788806224493


Stato di crisi
Stato di crisi Di Zygmunt Bauman;Carlo Bordoni;

S come Stato di crisi. Un’esplorazione lucida delle dimensioni politiche, sociali e culturali del malessere del nostro tempo: dalla crisi dello Stato moderno alla progressiva uscita dalla società di massa.

Oggi la crisi è al centro del dibattito pubblico. Nel tentativo di analizzarne le cause e ipotizzarne le conseguenze sul lungo periodo, siamo portati a paragonarla alla Grande Depressione. Ma c’è una differenza cruciale che distingue il malessere attuale dalla crisi degli anni Trenta: non abbiamo piú fiducia nella capacità dello Stato di risolvere la situazione e individuare una via d’uscita. Nel mondo sempre piú globalizzato, agli Stati nazionali è stato sottratto gran parte del potere di agire. E, poiché molti dei problemi da fronteggiare nascono a livello sovranazionale, l’entità delle forze a disposizione degli stati-nazione non è sufficiente per venirne a capo. Questo divorzio tra potere e politica produce un nuovo tipo di paralisi: indebolisce l’attività d’intervento e riduce la fiducia collettiva nella capacità dei governi di mantenere le loro promesse. L’impotenza degli esecutivi accresce il cinismo e il sospetto dei cittadini, innescando una triplice crisi: della democrazia rappresentativa, della fiducia nella politica e della sovranità dello Stato.

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