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I filosofi di Hitler di Yvonne Sherratt

Da oltre settant'anni il mondo e la Germania fanno i conti col nazismo – constata Yvonne Sherratt nel suo provocatorio saggio I filosofi di Hitler (Bollati Boringhieri), notando che all’interno del Terzo Reich quasi nessuna categoria sociale – dagli operai agli imprenditori, dagli insegnanti ai giudici, dagli impiegati ai medici – finì col restare immune al morbo nazionalsocialista, contribuendo a tollerare o sostenere l’autoritarismo del dittatore. Però a tutt'oggi nessuno ha ancora analizzato il ruolo e la funzione svolta da un gruppo particolarmente schivo e tranquillo: i filosofi. Eppure la filosofia è un elemento chiave per comprendere la cultura tedesca della prima metà del Novecento. Ma chi sarebbero, almeno secondo l’autrice, questi filosofi del Führer?

Un primo gruppo preso in esame dalla Sherratt fa riferimento a quella folta serie di pensatori e docenti universitari che gravitarono intorno a Hitler prima, durante e dopo l’Olocausto. Un secondo gruppo minoritario era costituito dagli accademici ebrei e dagli intellettuali che si opposero o cercarono di opporsi alle direttive del regime. Infine il saggio si occupa anche del nutrito gruppo di ambiziosi collaboratori filo-hitleriani, i quali ""fecero a gara per coprire con un velo di responsabilità le efferatezze dei nazisti"". A questa vasta ed eterogenea compagine parteciparono filosofi illustri come Martin Heidegger o giuristi di prima fama come Carl Schmitt; ma pure efficienti gregari quali Alfred Bӓumler ed Ernst Krieck.

La seconda parte del libro s’incentra sulla vita di quegli scrittori o studiosi che divennero ben presto vittime della croce uncinata o perché facenti parte della razza ebraica considerata inferiore e ostile a quella ariana o perché si opposero ideologicamente al nazismo. Quasi superfluo accennare al fatto che tali persone furono tutte perseguitate: finirono nei lager, furono giustiziate o costrette a fuggire in esilio. Si vedano le figure esemplari di Walter Benjamin, di Theodor Adorno e di Hannah Arendt.

Va ricordato altresì come, non a caso, lo stesso Hitler millantava di essere un leader filosofo, sostenendo l’importanza fondamentale del pensiero lucidamente e scientificamente razionale che, a suo dire, doveva esser posto alla base d’ogni organizzazione statale. Nel libro Mein Kampf, infatti, egli non scorda di celebrare a più riprese i padri fondatori della speculazione tedesca, quali Kant, Hegel, Schopenhauer e Nietzsche. Ovvio che le affermazioni di tali grandi autori venissero spesso distorte dal retore nazista, anche se purtroppo va preso atto che una certa dose più o meno accentuata di antisemitismo è davvero presente in tutti questi filosofi.

The Charnel House, Pablo Picasso (1944-1948), MOMA - New York.
Per giustificare prima l’avversione e poi la criminalizzazione nei confronti degli ebrei, Hitler fece dunque riferimento a personaggi del sapere apprezzati e venerati dai tedeschi, appellandosi pure ai j’accuse antiebraici di Fichte, di Feuerbach e persino dell’amatissimo Wagner. Ma è impossibile per via di spazio enumerare tutti i docenti, i saggisti, gli uomini di scienza le cui opere e i cui proclami vennero utilizzati dal regime per plagiare la coscienza del popolo; tuttavia non posso fare a meno di citare alcune altre figure di spicco dello Zeitgeist: dello spirito del tempo allora dominante in Germania. Ad esempio Ernst Haeckel, zoologo e filosofo sociale, sostenitore della preminenza della razza ariana sulle altre e favorevole all’eugenetica e all’eutanasia. O lo storico Oswald Spengler, fautore del cosiddetto darwinismo sociale: dottrina per cui non solo il dominio della razza superiore era auspicabile, ma necessario in quanto esso costituiva una vera e propria legge di natura secondo la quale i più forti fatalmente dominano i più deboli.

La conclusione cui Yvonne Sherratt giunge è perciò inquietante. Alla fine della prima guerra mondiale l’antisemitismo avrebbe pervaso ogni ambito della realtà tedesca. ""Uomini di logica o di passioni, idealisti o darwinisti sociali, volgari o sofisticati: tutti fornirono a Hitler le idee con cui rafforzare e mettere in atto il suo sogno"", giacché ""il passato della nazione brulicava di teorie riguardanti lo Stato forte, la guerra, il Superuomo, l’antisemitismo e, infine, il razzismo biologico"".

E ben presto i frutti avvelenati di quest’ambiente culturale iniziarono ad apparire. In linea col decreto Badenese del 1933, per ripulire gli atenei dagli insegnanti semiti, persino Husserl – padre della fenomenologia – venne espulso dall’università di Friburgo. Non fu né il primo né l’ultimo: oltre 1600 studiosi in breve tempo vennero cacciati dai loro incarichi. Quindi fu la volta dei libri messi al rogo, essendo ritenuti deleteri per l’animo tedesco. Così, tra moltissimi altri, finirono bruciati Marx ed Einstein, Lessing e Mendelssohn, Freud e Husserl; persino Spinoza e Heine. Non vi fu alcuna protesta per questo delitto; o meglio una sola vibrò con veemenza: occorreva bruciare molte più opere corruttrici di quanto non si fosse fatto.
In tale rivoluzionario clima pedagogico la figura di maggior rilievo − che nel 1933 aderì al partito nazista per rimanervi iscritto sino al 1945 − fu Martin Heidegger, uno dei più noti filosofi del XX secolo, il quale, fin dalla nomina a rettore dell’università di Friburgo, esortò gli studenti a confidare in Hitler che, secondo le parole dell’autore di Essere e tempo, ""Unico e solo il Führer è l’odierna e futura realtà tedesca e la sua legge"".

Circa una decina d’anni dopo il falò purificatore dei libri contaminati dall’ebraismo e l’espulsione dei professori non ariani, Hitler e i suoi gerarchi pensarono bene di architettare un annichilimento di più vasta portata. Ai nazisti non era infatti bastato rinchiudere oppositori, omosessuali ed ebrei nei lager. Soprattutto per questi ultimi serviva una soluzione drastica e finale. Così ad Auschwitz e altrove iniziarono tristemente a fumare senza sosta i camini dei crematori. Ma questa è un’altra storia. Anche se rimane da chiedersi quanto di essa sia da porre in relazione coi filosofi conniventi col regime.


recensione di Francesco Roat

Yvonne Sherratt - I filosofi di Hitler
Titolo originale: Hitler's Philosophers - Traduzione di F. Pe'
312 pag., 24,00 € - Bollati Boringhieri 2014 (Saggi. Storia, filosofia e scienze sociali)
ISBN 9788833925134
 


I filosofi di Hitler
I filosofi di Hitler Di Yvonne Sherratt;

Il programma politico di quello che di lì a poco si sarebbe chiamato Partito nazionalsocialista tedesco era ben noto fin dal 1925, delineato fin nei particolari nel Mein Kampf, che ebbe da subito una straordinaria fortuna commerciale. Nel 1933, anno dell'ascesa al potere di Hitler, l'ideologia razzista e antisemita del nazismo si imponeva già nelle università e nei centri di ricerca. Molti intellettuali non esitarono a mettersi al servizio del Terzo Reich. Filosofi, scrittori, scienziati, storici, cineasti rafforzarono ideologicamente e politicamente il regime hitleriano. Ma non tutti si comportarono allo stesso modo. Mentre figure di spicco della cultura come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Walter Benjamin, Ernst Cassirer, Hannah Arendt, Karl Löwith, Theodor Lessing, Karl Jaspers e vari altri furono ridotti al silenzio o costretti all'esilio, altri eminenti filosofi, tra i quali spiccano i nomi di Martin Heidegger, Carl Schmitt, Alfred Rosenberg, Wilhelm Grau e Max Boehm, contribuirono nel dare al nazismo una facciata di rispettabilità che gli mancava e che non avrebbe mai dovuto avere. Fu anche grazie al loro concreto appoggio, talora fervido e incondizionato, che il nazismo poté attuare il suo programma criminale quasi per intero. Frutto di anni di ricerche negli archivi internazionali, questo libro affascinante e appassionato ricostruisce minuziosamente il complesso rapporto tra quei filosofi e il nazismo, descrive il loro profilo etico e intellettuale, scandaglia le loro vicende umane fin negli aspetti più torbidi e meno noti.

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