Le recensioni di Wuz.it

Il mercante di utopie. La storia di Oscar Farinetti, l'inventore di Eataly di Anna Sartorio

“Mangiare è un atto agricolo”
                                                (Wendell Berry)


Se qualcuno non ha mai visitato il primo Eataly d’Italia, quello di Torino, non riesce forse a rendersi pienamente conto di come sia avere sotto gli occhi la realizzazione di un’utopia.

Splendida la sede, risultato della rispettosa ristrutturazione dell’antica fabbrica del vermouth Carpano ricca di rientranze, passaggi brevi scale, cortili interni. Qualcosa insomma che ha ancora un’anima e che una demolizione/ricostruzione, come oggi si suole fare in Italia, non avrebbe mai potuto produrre.

La ricchezza straordinaria e semplice dell’esposizione: i prodotti di cui viene data ogni garanzia, troneggiano (con il minor numero possibile di involucri per evitare l’accumulo di rifiuti) coloratissimi. L’attenzione è anche che, laddove sia possibile, i chilometri che la merce deve compiere siano il numero minore possibile, che la produzione corrisponda a tutti i criteri di correttezza e che la qualità non significhi però prezzi esorbitanti, grazie all’incoraggiamento che viene dato ai piccoli produttori. Utopia? Qualcuno potrebbe pensarlo: ma provate ad entrare nella sede di via Nizza 230 a Torino e capirete che si riescono a realizzare anche i sogni.

Ed è proprio tutta la vita di Oscar Farinetti, la sua prudenza e il suo ottimismo, il legame alla terra e la capacità di realizzare progetti importanti all’insegna della correttezza commerciale a mostrare come può esistere un’imprenditoria compatibile con l’etica e con una visione sociale del lavoro.

Figlio di un comandante partigiano, il Comandante Paolo della XXIesima Matteotti, socialista, consigliere comunale, che prima vende farina (è il nome stesso che guida la scelta), poi, allargandosi, creatore di Unieuro, un negozio in cui si vende anche il suo caffè “Encanto”: 1000 metri quadri, un supermercato come a Milano. Studente ginnasiale, primo della famiglia a frequentare un liceo, amico da subito del leader sessantottino Carlin Petrini: proprio lui, proprio il futuro padre di Slow Food! E poi la vita a Torino e l’università, Economia e Commercio, condividendo la camera con un altro studente, quel Gianmauro Bosticco, che sarebbe poi stato il suo commercialista, l’abbandono dell’università e della Torino degli anni di piombo quando gli mancavano solo sette esami. Il matrimonio (civile), il viaggio di nozze inconsueto, il lavoro nel supermercato del padre che aveva aperto un reparto dedicato agli elettrodomestici, il militare e la piccola vincita al totocalcio che gli dà un po’ di respiro sul mutuo da pagare, e la possibilità di investire in… elettrodomestici e nel suo geniale marketing.





Il Comandante Paolo così può allargarsi ancora, Oscar applicare le sue geniali trovate, la sua capacità di capire le esigenze della gente, di saper instaurare un rapporto di fiducia con i clienti, l’amicizia e la collaborazione anche con quelli che avrebbero dovuto essere i concorrenti. Sei punti vendita, un magazzino, un ristorante (in perdita) dove però contratta i suoi affari davanti a un ottimo pranzo. Dal 1995 al 2000 Oscar arriva a controllare novanta punti vendita in Italia: inizia “l’era dell’ottimismo” con un promotore d’eccezione, Tonino Guerra… Il successo continua a confortarlo, ma una frase di Tonino Guerra gli continua a tornare alla mente: Alla mia età conta meno una grande orchestra del rumore della pioggia… È il cibo adesso ad attirarlo, anche perché il suo amico Carlo Petrini lo continua a indottrinare, “proprio come trent’anni prima alle assemblee studentesche”… Oscar cede l’azienda e nasce Eataly, l’utopia.  Cibo genuino da acquistare e da mangiare nei ristorantini interni e anche libri, didattica dell’alimentazione, perché la gente deve capire che è più importante quello che mette dentro il proprio corpo di quello che mette fuori… E poi bisogna rispettare le stagioni, i ritmi lenti della natura, l’equilibrio che è al fondo di ciò che si consuma…


Eataly è storia di oggi ed è anche il domani: il domani di una cultura nuova e una passione che coinvolge Oscar, i suoi figli, i nuovi soci e tutti, ma proprio tutti, quelli che entrano nei punti Eataly di Torino e Milano e… di Tokyo, Giappone.
Un’altra anomalia di Oscar è il suo non essere attaccato al potere: nel settembre 2008 ha lasciato (è nato nel 1954) la carica di amministratore delegato delle due Eataly, la capogruppo e la controllata. Negli ultimi tempi si occupa dei vigneti… Non capita spesso!

Nelle pagine di Wuz: L'appetito vien leggendo



Le prime pagine

                                       Quando tutto inizia

La faccenda è seria e ho bisogno di fumarci su, pensa Oscar Farinetti. A mezzogiorno meno un quarto, ora di pranzo o giù di lì, la gente non si è ancora seduta a mangiare.
«Mica siamo in ospedale, è presto», dice per tranquillizzarsi. Però infila la mano nella tasca dei calzoni a controllare che il pacchetto di Super sia lì. Che voglia di fumare.  

Per Eataly è giorno di battesimo, il 27 gennaio 2007. Ieri c'è stata la conferenza stampa, il taglio del nastro, il sindaco di Torino e tutto il resto. La schiera dei compiacenti si è detta lieta di partecipare all'inaugurazione del primo supermercato al mondo dedicato ai cibi di qualità: tre piani, nove ristoranti, quattro aree didattiche e complimenti vivissimi. Farinetti si è schermito — «Mica ho fatto tutto io» — ma intanto era compiaciuto di umana vanità. Adesso, però, è un'altra cosa. Adesso arriva la gente, quella vera, quella per cui Eataly è stata pensata e costruita, quella che gli piace oppure no. Adesso è la prova del nove. Farinetti sente l'adrenalina battergli in testa. Si domanda pure se non abbiano ragione certi corvacci che per mesi hanno annunciato l'Apocalisse.

«Perderà i suoi soldi», gli hanno detto alle spalle, anche se qualcuno si è sempre preso la briga di riferirglielo, e comunque non è la prima volta nella sua vita d'imprenditore.
L'architetta che ha disegnato GuidoxEataly, l'unico ristorante alla carta tra i nove lì dentro, è stata più delicata. Ha chiesto solo: «Chi te l'ha fatto fare?» ma è una domanda dai molti sottintesi, non tutti incoraggianti.

Farinetti ha risposto nel dialetto di Alba, con le sue vocali così larghe e volgari per le orecchie di chi è abituato alla cadenza torinese, più stretta, chiusa, elegantemente dimessa.
«A sun gavami 'n balin.» Mi sono tolto uno sfizio.

L'architetta si è messa a ridere. Gli ha fatto un quadro con Photoshop. Un collage di istantanee scattate a quelli che lavorano lì. «I miei Category», li chiama Farinetti: Francesco, suo figlio maggiore, capo del reparto vini e liquori; Valentina Pelizzetti, responsabile della didattica e degli eventi; Piero Alciati, che gestisce la ristorazione. Altre persone sono riprese di spalle o volutamente sfocate. Al centro c'è lui con il sindaco della città, e su tutti quella scritta: A SUN CAVAMI 'N BALIN.
Adesso Farinetti non saprebbe dire se è peggio la voglia di fumare o il prurito. Psoriasi, gli ha diagnosticato il medico. La malattia dei sani, ci ha scherzato lui, perché è una vita che si allena a vedere il bicchiere mezzo pieno. Un uomo sceglie un branzino al banco del pesce. Nando Fiorentini, un ex pescatore dell'Argentario, che del pesce è il Category, cioè il capo, lo incarta, lo prezza e glielo da. L'uomo si sposta verso uno dei ristorantini - dove c'è scritto IL PESCE, appunto - e allunga il pacchetto a un ragazzo dietro il bancone che indossa un cappello da chef: «Me lo fa alla piastra?»


Il ragazzo sorride (Farinetti si raccomanda di sorridere sempre). Spiega che sì, è vero, a Eataly i cibi che si vendono sono gli stessi che si mangiano, però la questione non va intesa in senso strettamente letterale. L'uomo dice «ah» e si allontana, senza riprendersi il branzino. Il ragazzo col cappello da chef continua a sorridere. Farinetti infila una mano in tasca, controlla le Super. Poi si gratta un braccio. Che prurito.
Sono passati poco più di cinque minuti, ma il tempo dell'attesa è una condizione insopportabile e nessuno, ancora, si siede.

Stamattina è andata meglio, pensa Farinetti, anche se all'inizio la gente gli è parsa intimidita. Si avvicinava agli scaffali con riserbo, come al museo. Alcuni tendevano il busto in avanti, lasciando i piedi dietro la linea della diffidenza. Solo una signora mostrava un certo agio, forse troppo. Pescava biscotti al farro da una confezione artigianale di carta trasparente, che aveva aperto di sua iniziativa, stabilendo senz'altro che il giorno dell'inaugurazione la mercé non si paga.
Voci basse, gesti misurati, i prodotti come quadri - qualcosa che si ammira ma non ci appartiene. Poi qualcuno ha cominciato, e per emulazione un altro e un altro ancora. A poco a poco i carrelli si sono riempiti. Il brusio è cresciuto fino a farsi suono e voce. Mille, duemila, tremila persone sciamano adesso tra le bancarelle dell'ortofrutta. Salgono e scendono i tre piani di Eataly, 11.000 metri quadrati riservati solo agli ALTI CIBI A PREZZI SOSTENIBILI, come recita lo slogan. Scelgono carne, pasta, olio, pelati, formaggi. Si girano tra le mani confezioni che non si sono mai viste in altri supermercati, etichette che non finiscono in tivù. Toccano piatti monouso che non sono di plastica né di carta, ma di foglie di palma, «di palma?» mentre il pane con farine biologiche e lievito madre naturale, di cui Farinetti è orgoglioso come del bel voto di un figlio, diffonde per mezza Eataly la sua fragranza di campagna. Dovrebbe mettere appetito, pensa, allora perché i ristorantini sono vuoti?

Se si prendesse la briga di guardare l'orologio vedrebbe le lancette incagliate nelle secche del dubbio. Tante volte i dubbi vengono anche a lui. Che voglia di fumare.
È passato meno di un quarto d'ora. La stretta finale è terribile, Farinetti lo sa, eppure nemmeno lui se l'aspettava così. Quando vendeva elettrodomestici ha inaugurato decine di negozi, ogni volta una vertigine, ma oggi è peggio. Ha atteso Eataly per troppi anni, o forse è lei che attendeva lui. Nemmeno ricorda la prima volta che ha avuto l'idea. Ricorda piuttosto il giorno in cui l'ha disegnata. Un pomeriggio di cinque anni fa, mentre era in riunione dal notaio per vendere il suo impero di lavatrici, l'UniEuro, agli inglesi della Dixons. Intanto che tutti ragionavano di zeri e di milioni, Farinetti si era chiamato fuori e aveva preso un foglio formato A4. Aveva smesso di ascoltare i numeri, si era messo a disegnare il posto delle fragole. Ormai non era più un elettrodomesticaro.

Qualche mese più tardi aveva portato il disegno a Carlin Petrini, il fondatore del movimento Slow Food, il guru del cibo buono-pulito-giusto, il suo amico di sempre: da quando Farinetti era ancora un ginnasiale e Petrini, ventenne, uno dei leader locali del Sessantotto. Che stagione era stata.
Quel giorno Petrini aveva guardato il disegno in lungo e in largo e alla fine aveva dato a Farinetti la sua benedizione. L'idea era ottima, anche se la scelta di quel nome inglese, e pure inventato, non andava bene per niente.


«Non chiamarla Eataly, la gente non capirà! Dagli un nome italiano.»
«Scusa, Carlin, ma tu Slow Food mica lo hai chiamato Lento Cibo. E poi ho bisogno anch'io di un nome internazionale.»
«Allora chiamala come il cuoco di Luigi XIV. Com'era? Vatel.»



Sono trascorsi venti minuti. La gente riempie i carrelli ma non siede a mangiare. Guarda i banconi con sospetto. I ragazzi col cappello da chef sono tutti lì a sorridere, in fila. Farinetti è preoccupato. Teme che la gente non capisca l'integrazione tra ristorazione e vendita. Poi, d'un tratto, il sospetto. Forse non ho fatto coccodè. La storia del coccodè se l'è studiata a un convegno, dove era stato invitato a parlare di marketing e non sapeva che dire. O meglio, lo sapeva benissimo. Però voleva tenere alta l'attenzione, come sempre. Così se n'era uscito con la domanda: «Perché, se la gallina e la tacchina fanno l'uovo, noi mangiamo solo uova di gallina?»
Silenzio in sala.

«La gallina fa coccodè...»
Silenzio in sala.
«...e coccodè significa comunicare. Dire: io ho fatto l'uovo ed è buono, mangiatelo! La gallina è il primo docente di marketing della Storia.»
Applauso in sala.
Applauso, sì. Ma se lui, adesso, non ha fatto coccodè? Farinetti riesamina i fatti. Articoli sui giornali, interviste alla radio e alla televisione. Pubblicità sui quotidiani, perfino nelle buche delle lettere. Accidenti se ha fatto coccodè. Si guarda intorno, nessuno si siede. Forse ha fatto il coccodè sbagliato.

Mezzogiorno e un quarto. Prurito e voglia di fumare. Farinetti chiude gli occhi, scorre il primo disegno di Eataly, si rivede nei mesi in cui attraversava l'Italia alla ricerca di piccoli produttori d'eccellenza che lui, i suoi soci e i ragazzi di Slow Food hanno scelto, studiato, accudito. Ritrova le persone che ha incontrato, quelle che ha voluto con sé e quelli che invece lo hanno trattato come una mucca da mungere, un libretto degli assegni. Pensa ai duecento ragazzi che lavorano lì, che si sono messi di buzzo buono. I «miei», li chiama, vagamente paternalistico. Pensa a suo padre che lo ha cresciuto dicendo: «Difficile farcela due volte». E lui, che ce l'ha fatta già una volta, sa che una volta non gli basta. Apre gli occhi. Mezzogiorno e mezza.

Una coppia si è seduta al bancone del ristorantino vegetariano, e tanti carrelli si avvicinano, posteggiano. Chi li guida si ferma a ordinare un piatto. Farinetti misura a lunghe falcate il pianterreno, riconosce le voci di chi sta per mettersi a mangiare. Qualcuno prende il pane allineato nei cestini sui tavoli. Dice «uhmm». CARNE, PASTA, PIZZA, VERDURA, PESCE, SALUMI, FORMAGGI. A poco a poco i ristorantini si riempiono, una marea che spazza via ogni secca. Farinetti scende le scale, attraversa i Presidi di Slow Food, guarda a destra. Anche al ristorantino della BIRRA le sedie sono tutte occupate. Gira a sinistra, va verso la vineria didattica. Un paio di ragazzi bevono del rosso. Passa oltre e apre un porticina piccola e bianca, in fondo. È uno sgabuzzino pieno di sedie, quelle di GuidoxEataly, che tra otto mesi prenderà la Stella Michelin anche se Farinetti adesso non lo sa.
Pochi minuti dopo entra un cameriere. Quasi si spaventa. Seduto in un angolo, con una sigaretta in mano e la testa reclinata, Farinetti soffia il fumo verso il soffitto e borbotta qualcosa come in un sospiro. Il came¬riere non è nato a Torino, e tantomeno conosce il dialetto di Alba. Se lo conoscesse, capirebbe quel sospiro. «A sun gavami 'n balin.»


 L'autrice


Anna Sartorio (1968), giornalista professionista, ha lavorato per le più importanti testate nazionali (La Stampa, la Repubblica, Il Giornale), attraversando nell'arco di quindici anni tutti i settori del mestiere: dalla cronaca nera e giudiziaria all'economia, dalla cultura ai reportage di guerra. Dopo un ultimo incarico a ""Tuttolibri"", ha abbandonato definitivamente il lavoro di redazione per dedicarsi a quello di free-lance. Oggi collabora con Il Mondo, ""Il Venerdì"" di Repubblica, La Stampa, insegna al Master di Giornalismo dell'Università di Torino e ha fondato una società di comunicazione. È autrice del romanzo-verità L'Arca di Nina (Tea, 2004), diventato un long-seller. Vive a Torino. È sposata, ha due figlie.

03 dicembre 2008 Di Grazia Casagrande

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente