Le recensioni di Wuz.it

Sono razzista ma sto cercando di smettere di Guido Barbujani e Pietro Cheli

Parlando della persecuzione antisemita Giacomo Debenedetti nel 1944 scrisse: 
“… L’astrattezza di una simile operazione si vede anche dal lavoro che fu necessario per compierla: arido lavoro di statistica e di anagrafe, censimenti, moduli, dichiarazioni, registri, stampati, caselle, colonnine e finche. Ripetiamo: non si isolava un gruppo umano; si confezionava uno dei termini grammaticali per una frase propagandistica a grande effetto.


Qualcosa di questa frase richiama quel "censimento" che proprio in questi ultimi giorni è stato promosso e che prevede che vengano prese le impronte digitali a tutti i rom e sinti che vivono in Italia, bambini compresi.
Ed ecco quello che gli autori chiamano il "software di base del razzismo": un insieme di pregiudizi e di comportamenti nei quali si può facilmente sostituire il nemico (ieri e oggi l’ebreo, ma oggi anche l’immigrato africano o est europeo, e domani chissà) mantenendo invariate le motivazioni, cioè la difesa di una società che non va cambiata, e il pericolo che gruppi percepiti come incurabilmente e intollerabilmente diversi rappresentano per il mantenimento dello status quo.


Premesso che le razze non esistono e che tutta l’umanità discende da progenitori originari dell’Africa, eccoci oggi ancora alle prese con chi questo dato scientifico o lo ignora e vuole ignorarlo.
Vengono prodotte dai due autori una serie di testimonianze, fatti accaduti negli ultimi anni, passaggi particolari di nuove leggi, alcune ordinanze comunali, discorsi “da tram” e discorsi di “scienziati”: tutto un repertorio di forme attuali di razzismo che ricordano purtroppo altre, che ebbero tragiche conseguenze, che si pensava ormai archiviate da tempo. Eppure, dicono gli autori, siamo ancora in una fase iniziale, un momento in cui il razzismo non è ancora davvero radicato, ma solo embrionalmente presente nei paesi occidentali, fase che può essere astutamente utilizzata da chi accarezza il malessere generalizzato e non sufficientemente contrastata (attraverso strumenti di conoscenza e di comunicazione) da chi invece intuisce la pericolosità della cosa.


Se guardiamo storicamente il razzismo, vediamo che c’è stato chi ha cercato ad esempio  di dimostrare che gli europei del Nord erano gli esseri umani più intelligenti del mondo, perché le dimensioni del loro cranio erano maggiori rispetto a quelle degli altri popoli, dimenticando però che il calcolo andava fatto in proporzione all’altezza dell’individuo e non in assoluto. Molte altre sciocchezze sono state scritte per difendere la tesi indifendibile della superiorità di una popolazione su di un'altra. E poi, che cosa si intende per intelligenza? La formula più onesta, nella sua vaghezza, è quella dell’Encyclopedia Britannica del 2006: “L’intelligenza non è un singolo processo mentale, quanto una combinazione di molti processi mentali diretti ad ottenere un effettivo adattamento all’ambiente”. Tutto ciò dimostra evidentemente che le intelligenze (è doveroso parlare al plurale) sono di vario tipo e mai quantificabili con un semplice calcolo come tanti hanno cercato di fare nel secolo scorso.
Si diceva appunto che le razze non esistono, ma se volessimo ugualmente tentare una divisione in “razze” dell’umanità le difficoltà non mancherebbero. Se esaminiamo in nostri parenti più prossimi, gli orangutan possiamo vedere come gruppi che abbiano vissuto in isole tra loro non comunicanti abbiano nel tempo assunto peculiarità tra loro diverse e anche alcuni elementi del loro DNA abbiano  caratteristiche diverse. Ma l’isolamento è fondamentale per la diversificazione. Se invece le popolazioni non sono isolate dal punto di vista riproduttivo, le mutazioni circolano e così è avvenuto con gli esseri umani la maggior parte dei quali, volenti o nolenti, si sono spostati nel mondo. Così tutti i tentativi di catalogazione sono contraddittori, errati, incongrui: “se non ci si riesce a mettere d’accordo sulle razze umane è perché stiamo cercando qualcosa che non esiste”. Solo le varie polizie, americane e inglesi, hanno una loro divisione razziale molto ingenua e scorretta, ma considerata funzionale. E così sono definite semplicemente ispaniche persone di origine europea come Isabel Allende, africana come il pugile Teófilo Stevenson, o india come il Premio Nobel Rigoberta Menchù.

Arrivati alla conclusione del libro che si può dire? che ci siamo sforzati in tutti i modi di trovare delle divisioni degli uomini in razze, ma il tentativo è fallito semplicemente perché le razze non esistono. Eppure delle forme anche virulente di razzismo permangono. Forme che non vogliono darsi una patente scientifica, ma che semplicemente non accettano che tutti abbiano gli stessi diritti.
Attenzione però a non essere “razzisti all’incontrario” (ammoniscono gli autori), cioè a non saper criticare neppure alcuni comportamenti che confliggono con la dignità e l’uguaglianza delle persone perché provengono da "culture" altre rispetto alla nostra..
Nell'un caso e nell'altro, in fondo qualcosa di razzista c’è in tutti noi, però, dicono Barbujani e Cheli, autori di questo interessante, denso di informazioni e spesso ironico saggio, alcuni almeno cercano in tutti i modi di smettere… 


Le prime pagine

                                                                           1.
                                                           COSÌ VA IL MONDO?


La notte tra sabato 8 e domenica 9 novembre 2003 i vigili del fuoco scavano tra le macerie del cantiere crollato al Museo del Mare di Genova. Cercano il corpo senza vita di Albert Kolgjegja, muratore albanese di 30 anni; lo ritroveranno dopo diciotto ore di lavoro. Intanto, a poco più di cento chilometri, nel centro storico di Sanremo, un gruppo di cittadini guidati dal parlamentare europeo Mario Borghezio va alla ricerca di clandestini. È una ronda padana al profumo dei fiori, dei quali però non avverte le delicate suggestioni: «Abbiamo braccia robuste e pessime intenzioni», annuncia Borghezio dalle colonne del «Secolo XIX».  

Erano braccia robuste anche quelle di Albert Kolgjegja, ma non abbastanza per resistere all'urto con il blocco di cemento spesso sessantacinque centimetri piovuto dall'alto che lo ha inchiodato per sempre. Oggi, davanti al Museo del Mare c'è una targa che lo ricorda. C'è da sperare che, quando tra alcuni anni di rende padane non si parlerà più, a chi passi davanti al porto antico di Genova venga voglia di sapere di quel ragazzo morto lavorando per rendere più bello un pezzette del nostro paese.

Un altro episodio. La sera del 30 ottobre 2007 intorno alle 21 l'autista dell'autobus linea 31 dell'Atac, l'azienda dei trasporti di Roma, in servizio nella zona Tor di Quinto, è costretto a frenare bruscamente per non investire una donna che urla e piange alla ricerca di aiuto. L'uomo cerca di capire. La donna non parla italiano, è rumena, ma riesce a fargli intuire che qualcosa di grave è accaduto e finalmente l'uomo chiama le forze dell'ordine. Nel giro di pochi minuti arriva una volante della polizia che, grazie alle indicazioni della donna, scopre in un fossato poco distante Giovanna Reggiani, di 47 anni, che non riesce a parlare, respira appena in modo affannoso, e porta su di sé evidenti segni di violenza. Nel frattempo la donna rumena, mimando quanto era successo, chiede ai poliziotti di seguirla. Li porta nella baracca di un campo rom dove arrestano Romulus Nicolae Mailat, 24 anni, rumeno.
Giovanna Reggiani muore due giorni dopo, Mailat nel frattempo è incarcerato. L'omicidio sconvolge l'opinione pubblica, scuote le istituzioni. L'immediata risposta è un decreto legge molto duro che autorizza i prefetti e i giudici di pace a espellere gli immigrati comunitari di riconosciuta pericolosità sociale, insieme alle loro famiglie. Tutti via. In particolare, nella relazione che accompagna il testo per i lavori parlamentari, viene precisato più volte che si tratta di «rumeni». Come Romulus Nicolae Mailat, sì, ma anche come quella donna che non ha esitato a buttarsi sotto un autobus per dare l’allarme. Il suo nome è Emilia, ed è tutto quello che sappiamo. Di lei si sono perse le tracce, peccato: una medaglia l’avrebbe meritata di sicuro.

© 2008, Laterza

Guido Barbujani e Pietro Cheli – Sono razzista ma sto cercando di smettere
133 pag., 10 € – Edizioni Laterza 2008 (Saggi italiani Laterza)
ISBN 978-88-42-08660-4


Gli autori

Guido Barbujani insegna Genetica all’Università di Ferrara. Si occupa delle origini e dell’evoluzione della popolazione umana. Ha pubblicato i romanzi Dilettanti (Marsilio 1993), Dopoguerra (Sironi 2002), Questione di razza (Mondadori 2003) e il saggio scientifico L’invenzione delle razze (Bompiani 2006).
Le opere di Barbujani su Wuz


Pietro Cheli, giornalista, lavora a “Gioia”, dopo aver fatto parte per molti anni della redazione di “Diario”. Ha condotto programmi sulla Rai e su Telepiù. Ha scritto con Ivano Fossati il libro Carte da decifrare (Einaudi 2001), con molti altri autori Il calendario del laico (a cura di Grandi & Associati, Mondadori 1998). Ha curato con Ferdinando Bruni il libro fotografico Elfo BazaAr (il Saggiatore 2004). 


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11 luglio 2008 Di Grazia Casagrande

Sono razzista, ma sto cercando di smettere
Sono razzista, ma sto cercando di smettere Di Guido Barbujani;Pietro Cheli;

Niente razze, ma molto razzismo. Nonostante studi approfonditi abbiano dimostrato da tempo che di razze umane ce n'è una sola, certi sentimenti non smettono di circolare. Siamo tutti parenti, discendenti dagli stessi antenati africani che hanno colonizzato in poche migliaia di anni tutto il pianeta. Niente razze, ma molte differenze, scritte un po' nel nostro DNA. E moltissimo nella nostra cultura, nei tanti luoghi comuni dove andiamo a inciampare ogni giorno, nei pregiudizi che ci guidano attraverso le piccole e grandi vicende della vita e che ci portano a subire, dire, fare o semplicemente pensare cose razziste.

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