Le recensioni di Wuz.it

Memorie di un soldato bambino

Ishmael Beah

“I villaggi conquistati e trasformati in basi e le foreste in cui dormivamo, diventarono la mia casa. La squadra era una famiglia, il fucile il mio custode e protettore, l’unica regola era uccidere o restare uccisi. I miei pensieri non andavano oltre. Combattevamo da più di due anni, ammazzare era ormai diventato un gesto quotidiano. Non provavo pietà per nessuno.”

Per una volta un bambino soldato ce l’ha fatta a ritrovare serenità ed equilibrio, per una volta la violenza che l’ha segnato in modo così crudele quando era per lui più facile subire soprusi e orrori, cioè nell’infanzia, è stata sconfitta: l’autore di queste Memorie, ora presenti nelle classifiche dei libri più venduti, è stato un bambino soldato ed è riuscito a raccontare, in prima persona la sua terribile esperienza.  
Il perché del grande successo internazionale del libro indica che le persone, quando sentono la sincerità di una testimonianza, rispondono all'appello e suggerisce anche che bisognerebbe davvero iniziare una campagna di stampa e d'opinione per sconfiggere questa drammatica realtà dei soldati bambini.


Nel 1993 e a Mogbwerno, il villaggio in cui viveva Ishmael, la guerra sembrava lontana, anche se c’era qualcuno che, parlando coi profughi, aveva capito che quel flagello sarebbe arrivato fino al  piccolo villaggio. Aveva solo dieci anni Ishmael allora, e per due anni non avrebbe conosciuto direttamente l’orrore della guerra, ma quando ci fu l’impatto, e fu brutale, tutta la sua vita cambiò.
Con il fratello e un amico era andato a suonare (il rap li aveva affascinato e avevano formato una piccola band che si esibiva nei vari villaggi) lontano da casa ed là viene a sapere che i ribelli avevano attaccato all’improvviso il villaggio provocando la fuga caotica degli abitanti. La piccola band prende la via del ritorno ma, strada facendo, tutti i segni della guerra si presentano ai loro occhi, persone in fuga, cadaveri, sangue e disperazione: il ritorno è davvero impossibile. In fuga dai ribelli, da un villaggio all’altro, nascosti nella boscaglia, affamati e sempre più spaventati, i ragazzi lottano per sopravvivere. Ma tutto sembra precipitare quando Ishmael perde le tracce del fratello. Incontra un altro gruppo di ragazzi (ognuno aveva una storia dolorosa di fuga e di paura) a cui unirsi, ed ecco il resoconti di quei giorni terribili: scambiati per ribelli, rischiano la vita, poi qualche momento sereno, quindi l’incontro terribile con i ribelli, ragazzi che avevano non molti anni più di loro, la speranza rinasce in un villaggio in cui riparano, ma la guerra non perdona e proprio in quel luogo che li accoglie con affetto devono impugnare per la prima volta i fucili e prepararsi a combattere con l’esercito regolare, arruolati sul campo.
Dopo aver ingurgitato delle strane pastiglie bianche e aver visto la morte su tanti visi ed essersi imbrattato di sangue Ishmael riesce a sparare e a uccidere. Inizia la sua vita da soldato, i turni, i combattimenti, le esercitazioni. Passano due anni così, il cuore del bambino Ishmael si è trasformato nel ghiaccio del soldato Ishmael.
Nel 1996 il bambino soldato ha ormai quindici anni quando nel villaggio arrivare un camion con quattro uomini che indossavano una maglietta su cui era scritto Unicef a grandi lettere. Dopo poche ore lui e alcuni altri ragazzi vengono “congedati”, ma il suo animo da soldato è ormai indurito e gli è impossibile ritornare ad essere un ragazzino qualsiasi.

Viene portato con gli altri in un centro di riabilitazione, ma l’astinenza dalle droghe a cui era, lui come gli altri, già assuefatto lo tormenta e la violenza si scatena in tutti quei ragazzini in cui il sangue che avevano sparso nelle battaglie sostenute quando erano soldati diventa una specie di ebbrezza e di incubo e i ricordi si ripresentano spesso impietosi. Inizia la lunga e difficile opera di riabilitazione psicologica alla vita normale: la scuola, i rapporti umani, gli affetti. Una nuova famiglia può accoglierlo, uno zio che in realtà Ishmail neppure conosceva e così inizia la sua nuova vita, circondata da persone allegre e piene di attenzioni nei suoi confronti. Selezionato per presentare alle Nazioni Unite la situazione dei bambini nella Sierra Leone, Ishmael va a New York e per la prima volta entra in contatto con un mondo totalmente diverso da quello in cui era cresciuto. Ma il ritorno a casa, dalla nuova famiglia, così come il bel ritorno alla scuola e alla normalità, presto viene rattristato dalle notizie di un nuovo colpo di Stato, dall’anarchia che prende il Paese e dall’arrivo di ribelli e soldati nel villaggio: per Ishmael è un incubo pensare di trovarsi di nuovo in mezzo alla guerra. La morte improvvisa dello zio e la nuova guerra incombente lo fa decidere di andarsene: New York è la sua meta e c’è anche qualcuno là disposto ad accoglierlo e a permettergli di iniziare una seconda vita: queste memorie ne sono il risultato.

La Sierra Leone è indipendente dal 1961. Dal 1962 al 1992 governa il partito presieduto da Siaka Stevens. Nel 1991 Joseph Momoh, successore di Stevens indice un referendum per il multipartitismo: il 60% della popolazione vota sì. Nello stesso anno il Revolutionary United Front di Sankoh lancia la sua offensiva. Da allora è un succedersi di colpi stato in uno stato di guerra civile permanente. Nei palazzi di Freetown si succedono il capitano Valentine Strasser, il brigadiere Julius Maada Bio, il presidente Ahmad Tejan Kabbah (scelto in elezioni presidenziali nel 1996), il maggiore Johnnny Paul Koroma, il presidente Ahmad Tejan Kabbah. In Sierra Leone in questi anni hanno combattuto l'esercito regolare, i mercenari della sudafricana Executive Outcomes, i mercenari inglesi della Sandline, i soldati della forze di pace interafricana a comando nigeriano, miliziani liberiani, l'esercito inglese.
Non esistono dati ufficiali e neppure stime sui ragazzi soldato impiegati in Sierra Leone. Si sa che sono migliaia e che vengono arruolati da entrambe le parti in conflitto. Molti sono costretti. Altri invece chiedono di essere arruolati perché, nelle fila di un esercito, credono di trovare sicurezza e, soprattutto, un sostentamento. Per tutti gli effetti sono devastanti. Sia sul piano fisico, sia su quello psicologico. Per mandarli a combattere gli adulti li drogano, creando in loro una dipendenza dagli stupefacenti che difficilmente perdono dopo la guerra. Ma, soprattutto, li usano come piccoli schiavi da impiegare nei lavori pesanti e nelle pratiche sessuali più degradanti.
(Da Peacereporter.it)


Le prime pagine


1.

Se ne sentivano talmente tante sulla guerra, che sembrava fosse scoppiata in una nazione lontana e sconosciuta. Solo quando i primi profughi giunsero in città capimmo che il paese in cui si combatteva era davvero il nostro. Famiglie intere che avevano percorso centinaia di chilometri raccontavano di parenti uccisi e case bruciate. Qualcuno aveva pietà di loro e offriva accoglienza, ma quasi tutti la rifiutavano, perché dicevano che prima o poi la guerra sarebbe arrivata anche da noi. I bambini dei profughi neanche ci guardavano, scattavano impauriti al rumore della scure sulla legna o quando i sassi lanciati dalle fionde dei ragazzi a caccia di uccelli risuonavano sui tetti di lamiera. I più grandi si perdevano nei propri pensieri, mentre parlavano con gli anziani della mia città. Erano stanchi e malnutriti, ma era evidente che c'era qualcos'altro che li tormentava, qualcosa che ci saremmo rifiutati di credere, se ce ne avessero parlato. A volte pensavo che i profughi esagerassero, nei loro racconti. Le uniche guerre che conoscevo erano quelle dei libri, dei film di Rambo, oppure quella nella confinante Liberia, di cui avevo sentito parlare al radiogiornale della BBC. A dieci anni la mia immaginazione non era in grado di intuire cosa aveva derubato i profughi della felicità.
Quando la guerra mi toccò per la prima volta avevo dodici anni. Era il gennaio del 1993. Me n'ero andato di casa assieme a mio fratello Junior e al nostro amico Talloi, entrambi di un anno più grandi di me, per partecipare a un'esibizione di dilettanti organizzata da alcuni amici nella città di Mattru Jong. Mohamed, il mio migliore amico, non era potuto venire con noi perché quel giorno doveva aiutare il padre a ristrutturare il tetto di paglia della cucina. Alcuni anni prima, quando avevo otto anni, noi quattro avevamo fondato un gruppo di musica e ballo rap. Avevo scoperto il rap durante una gita a Mobimbi, il quartiere in cui vivevano gli stranieri che lavoravano per la stessa compagnia americana che aveva assunto mio padre. Andavamo spesso a Mobimbi a nuotare in piscina e a guardare l'enorme televisore a colori e i bianchi che popolavano la zona dei divertimenti per turisti. Una sera la TV aveva trasmesso un video musicale in cui c'era una banda di ragazzi neri che parlava¬no davvero veloce. Eravamo rimasti ipnotizzati, cercando di capire cosa dicevano. Alla fine del video, nella parte bassa dello schermo erano apparse delle scritte: «Sugarhill Gang - Rapper's Delight». Junior aveva annotato subito il nome su un foglio. Da quel momento avevamo passato i fine settimana a studiare quel genere di musica davanti alla TV. Allora non sapevamo come si chiamasse, ma io ero impressionato dalla parlata veloce e perfettamente a tempo di quella banda di ragazzi neri.
In seguito, quando Junior aveva iniziato a frequentare la scuola media, grazie ai suoi nuovi amici aveva approfondito la conoscenza di quella musica straniera e del modo giusto di danzarla. Durante le vacanze mi portava cassette da ascoltare, e insegnava a me e ai miei amici i passi di quello che scoprimmo chiamarsi hip-hop. Adoravo ballare, ma mi divertivo soprattutto a imparare i testi a memoria, perché erano poetici e arricchivano il mio vocabolario. Un pomeriggio mio padre era tornato a casa mentre io, Junior, Mohamed e Talloi stavamo imparando le parole di I know you got soul di Eric B. & Rakim. Ci aveva guardato ridendo dalla soglia della casa di mattoni d'argilla con il tetto di lamiera, e aveva chiesto: «Ma lo capite almeno cosa state dicendo?» Poi se ne era andato senza lasciare a Junior il tempo di rispondere. Si era sdraiato sull'amaca all'ombra delle piante di mango, guava e arancio sintonizzando la radio sul notiziario della BBC.
«Questo sì che è un buon inglese, fareste meglio ad ascoltare questo» aveva urlato dal cortile.
Mentre papa ascoltava le notizie, Junior ci insegnava a muovere i piedi a ritmo. Con il destro facevamo un saltello avanti e uno indietro, poi ripetevamo la mossa con il sinistro, e nel frattempo accompagnavamo il movimento con le braccia, scuotendo il busto e la testa. «Questa è la mossa del running man, l'uomo che corre» diceva Junior. Infine ci esercitavamo a cantare in playback i rap che avevamo imparato. Prima di lasciarci per compiere i nostri doveri serali, come pulire le lampade o andare a prendere l'acqua, ci salutavamo dicendo: «Peace, son» o: «l'm out», modi di dire che avevamo scoperto nei testi delle canzoni hip-hop. Fuori, iniziava la musica serale degli uccelli e dei grilli.

© 2007, Neri Pozza Editore


L'autore



07 giugno 2007 Di Grazia Casagrande

Memorie di un soldato bambino

Il 1993 è appena iniziato in Sierra Leone e a Mogbwemo, il piccolo villaggio in cui vive il dodicenne Ishmael, la guerra tra i ribelli e l'esercito regolare, che insanguina la zona del paese più ricca di miniere di diamante, sembra appartenere a una nazione lontana e sconosciuta. Di tanto in tanto nel villaggio giungono dei profughi che narrano di parenti uccisi e case bruciate. Ma per Ishmael, suo fratello Junior e gli amici Talloi e Mohamed, quei profughi esagerano sicuramente. L'immaginazione dei ragazzi è catturata da una cosa sola: la musica rap. Affascinati dalla "parlata veloce" di un gruppo americano visto in televisione, i ragazzi hanno fondato una band e se ne vanno in giro a esibirsi nei villaggi vicini. Un giorno, però, in cui sono in uno di questi villaggi, li raggiunge la terribile notizia: i ribelli hanno attaccato e distrutto Mogbwemo. Ishmael non vedrà più casa sua e i suoi genitori. Perderà Junior. Fuggirà nella foresta, dormirà di notte sugli alberi, sarà catturato dall'esercito governativo, imbottito di droga, educato all'orrore, all'omicidio, alla devastazione. Il suo migliore amico non sarà piú il tredicenne Talloi ma l'AK-47 e la sua musica non più l'hip-hop ma quella del suo fucile automatico. Una testimonianza indimenticabile dal cuore dell'Africa, dove milioni di bambini muoiono di malattie curabili in Occidente e centinaia di migliaia sono mutilati o cadono in guerra.

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