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A Leros, in un'isola maledetta dimenticata dal mondo e da Dio, accadono fatti di estrema sofferenza e violenza descritti senza mezzi termini in un enorme dove il regime dei colonnelli confinò insieme folli, poeti e oppositori politici. Si intreccia alla vicenda la tragedia dei migranti della nostra contemporaneità. Emerge da queste pagine che l'unica salvezza è la parola poetica, il coraggio di cercare ancora “La prima verità”. Un libro duro e dolorosamente bello quanto necessario.
Un libro dalla scrittura scorrevole ma non esaltante. Ho trovato l'accostare così tanti temi della pazzia nelle sue svariate configurazioni un'operazione strana e vagamente 'di moda'... si va dal manicomio lager sull'isola di Leros, all'anoressia, alla depressione, il tutto rimescolato in un modo che mi ha lasciato, durante la lettura, una strana sensazione. Come se lungo le dolorose parole del testo scorresse un certo (immotivato) compiacimento nelle miserie dell'umanità, così dolorosamente necessarie. Ma perché? Assegno due stellette per il colossale lavoro di studio che sta dietro alla storia di Leros, per la foto di copertina e per la citazione iniziale di Ghiannis Ritsos.
Storia di follia dove a parlare è sempre il corpo (pezzi di corpo), quasi mai la mente. Perché la follia è una diversità che si manifesta innanzitutto nell'esclusione fisica. "Perché l'ultimo a morire è il corpo", è l'estrema verità del fantasma: la mente e l'anima si spezzano prima. La grande impresa di Simona Vinci (quella che già le era riuscita meravigliosamente con "Dei bambini non si sa niente") è portarci attraverso il linguaggio in uno spazio destrutturato, non confortevole e al tempo stesso ipnotico, come una storia gotica. Continui gli attriti narrativi, le apparenti incongruità, i salti temporali, lo spaesamento dei luoghi. Vera opera d'arte, che nel finale però vuole spiegarsi troppo, come a rassicurare il lettore.
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