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I detective selvaggi - Roberto Bolaño - copertina
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detective selvaggi

Descrizione


"Anziché lo scrittore," ha detto una volta Roberto Bolaño "mi sarebbe piaciuto fare il detective privato. Sicuramente sarei già morto. Sarei morto in Messico, a trenta, trentadue anni, sparato per strada, e sarebbe stata una morte simpatica e una vita simpatica". Simpatica, eppure segnata già dalla sconfitta e dalla follia, dissipata e bohémienne, esaltante e allucinata, dopata di sesso, poesia, marijuana e mezcal, è sicuramente la vita dei protagonisti di questo libro, che Enrique Vila-Matas ha descritto come "il viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai". "I detective selvaggi" è infatti il romanzo delle loro avventure, ed è quindi un romanzo di formazione; ma è anche un romanzo giallo nonché, come tutti quelli di Bolaño, un romanzo sul rapporto tra la finzione e la realtà. Un libro, ha scritto un critico messicano, "simile a uno stadio dove la gente entra ed esce in continuazione", e dove, come avviene in 2666, si incrociano e si aggrovigliano, spesso contraddicendosi, le "versioni" di un'infinità di personaggi (tutta gente che "on the wild side" non si è limitata a farci un giro): poetesse scomparse nel deserto del Sonora e puttane in fuga, ex scrittori di avanguardia e magnaccia imbufaliti, architetti vaneggianti e poliziotti corrotti, cameriere libidinose e poeti bisessuali, e poi avvocati, editori, neonazisti e alcolizzati...
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Dettagli

2014
24 aprile 2014
688 p., Brossura
Los detectives salvajes
9788845928727
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Indice


Le prime frasi del romanzo:

2 novembre

Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Naturalmente, ho accettato. Non c’è stata cerimonia di iniziazione. Meglio così.

3 novembre

Non so bene in cosa consista il realismo viscerale. Ho diciassette anni, mi chiamo Juan García Madero, sono al primo semestre di giurisprudenza. Io non volevo studiare giurisprudenza, bensì lettere, però mio zio insisteva e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Fu questo quel che dissi a mio zio e a mia zia e poi mi chiusi in camera e piansi tutta la notte. O almeno una buona parte. Poi, con apparente rassegnazione, entrai alla gloriosa Facoltà di Giurisprudenza, ma dopo un mese mi iscrissi al seminario di poesia di Julio César Álamo, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e così conobbi i realvisceralisti, o viscerrealisti o perfino vicerealisti, come a volte gradiscono farsi chiamare. Fino ad allora ero stato solo quattro volte al seminario e non era mai successo niente, dico per dire, perché a ben pensarci succedeva sempre qualcosa: leggevamo poesie, e Álamo, a seconda dell’umore, le lodava o le polverizzava: uno leggeva, Álamo criticava, un altro leggeva, Álamo criticava, un altro ancora leggeva, Álamo criticava. A volte Álamo si annoiava e diceva (a quelli che in quel momento non stavano leggendo) di criticare anche noi, e allora noi criticavamo e Álamo si metteva a leggere il giornale.
Era il metodo perfetto perché nessuno fosse amico di nessuno o perché le amicizie si fondassero sulla malattia e sul rancore. D’altra parte non posso dire che Álamo fosse un buon critico, anche se parlava sempre di critica. Adesso credo che parlasse per parlare. Sapeva cos’era una perifrasi, non benissimo, ma lo sapeva. Non sapeva, però, cosa fosse una pentapodia (la quale, come tutti sanno, nella metrica classica è un sistema di cinque piedi), non sapeva nemmeno cosa fosse un nicarcheo (che è un verso simile al falecio), né cosa fosse un tetrastico (che è una strofa di quattro versi). Come faccio a sapere che non lo sapeva? Perché commisi l’errore, il primo giorno di seminario, di domandarglielo. Non so cosa mi fosse saltato in testa. L’unico poeta messicano che sa a memoria queste cose è Octavio Paz (il nostro grande nemico), tutti gli altri non ne hanno la più pallida idea, almeno questo è quanto mi disse Ulises Lima qualche minuto dopo che entrassi e fossi amichevolmente accolto nelle file del realismo viscerale. Facendo quelle domande a Álamo avevo dato prova, come non tardai ad accorgermi, della mia mancanza di tatto. All’inizio pensai che il sorriso che mi rivolgeva fosse di ammirazione. Poi mi resi conto che era di disprezzo. I poeti messicani (immagino i poeti in genere) detestano che gli si ricordi la loro ignoranza. Ma io non mi lasciai intimorire e dopo essermi visto distruggere un paio di poesie al secondo seminario cui partecipai, gli domandai se sapesse cos’era un rispetto. Álamo pensò che gli stessi chiedendo rispetto per le mie poesie e giù a parlare di critica obiettiva (tanto per cambiare), che è un campo minato che ogni giovane poeta deve attraversare, eccetera, ma io non lo lasciai continuare e dopo avergli spiegato che mai nella mia breve vita avevo preteso rispetto per le mie povere creazioni tornai a formulargli la domanda, questa volta cercando di scandire la parola con la maggiore chiarezza possibile.
— Non tirarmi fuori cazzate, Garcia Madero — disse Álamo. — Un rispetto, caro maestro, è un genere di componimento lirico, amoroso per essere più esatti, simile allo strambotto, composto di sei o otto endecasillabi, i primi quattro in forma di sirventese e i seguenti in distici rimati. Per esempio... — e già mi preparavo a fargli uno o due esempi quando Álamo si alzò di scatto e diede per conclusa la discussione. Quel che accadde dopo è confuso (anche se ho buona memoria): ricordo la risata di Álamo e le risate dei miei quattro o cinque compagni di seminario, probabilmente a una felice battuta consumata alle mie spalle.
Un altro, al posto mio, non avrebbe più rimesso piede là dentro, ma io, malgrado gli infausti ricordi (o malgrado l’assenza di ricordi, in quel caso altrettanto se non più infausta della conservazione mnemonica degli stessi), la settimana dopo ero di nuovo li, puntuale come sempre.

Valutazioni e recensioni

Recensioni: 4/5

Capita di vedere un albero nato non si sa come su un pendio roccioso. Non si capisce bene come faccia a starci, da dove tragga la linfa, grazie a quale miracolo partorisce le sue foglie verdi. Eppure esiste, è verde. ed evidentemente ha trovato di che vivere. Così sono gli uomini de I detective selvaggi, esistono e già questo è un motivo sufficiente per non chiedere loro niente.

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Roberto Bolaño

1953, Santiago

Abbandonato il Cile all’indomani del colpo di stato che portò alla dittatura di Augusto Pinochet, Roberto Bolaño visse dapprima in Messico e poi in Spagna, dove si stabilì definitivamente. Dopo aver pubblicato diverse raccolte di poesie, ottenne la consacrazione presso critica e pubblico come autore di romanzi e racconti nei quali ebbe modo di dispiegare una scrittura e un’inventiva originali, maturate attraverso un lungo confronto con i classici e le avanguardie letterarie, in particolare con il surrealismo e l’opera di Jorge Luis Borges. Nel 1993 pubblicò La pista di ghiaccio, nel quale, affidando il racconto di uno stesso crimine a tre diversi personaggi, dimostrò la predilezione e il talento per la costruzione di strutture narrative...

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