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Mi chiamo Lucy Barton - Elizabeth Strout - copertina
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Mi chiamo Lucy Barton
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Mi chiamo Lucy Barton - Elizabeth Strout - copertina
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Descrizione



In una stanza d’ospedale nel cuore di Manhattan, davanti allo scintillio del grattacielo Chrysler che si staglia oltre la finestra, per cinque giorni e cinque notti due donne parlano con intensità.

«Un romanzo perfetto, nelle cui attente parole vibrano silenzi. Mi chiamo Lucy Barton offre una rara varietà di emozioni, dal dolore piú profondo fino alla pura gioia». - Claire Messud, The New York Times

«Strout si conferma una narratrice grandiosa di sfumate vicende famigliari, capace di tessere arazzi carichi di saggezza, compassione, profondità. Se non l’avesse già vinto con Olive Kitteridge, il Pulitzer dovrebbe essere suo per questo nuovo romanzo». - Hannah Beckerman, The Guardian

Deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos'hanno dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi. - Elizabeth Strout

Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, una donna vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni. Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell'Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, "ciao, Bestiolina", perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia. Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. La donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d'ospedale. Lì la parola rassicura perché avvolge e nasconde. Ma è nel silenzio, nel fiume gelido del non detto, che scorre l'altra storia.
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Dettagli

2016
3 maggio 2016
158 p., Rilegato
My name is Lucy Barton
9788806229689

Valutazioni e recensioni

Fabiola Galati
Recensioni: 2/5

Riponevo un po' di aspettative su questo libro, ma sono andate deluse. "Mi chiamo Lucy Barton" è fondamentalmente un libro che narra il rapporto complicato di una madre con la propria figlia - tale Lucy Barton, la voce narrante. La protagonista viene presentata al lettore in una camera ospedaliera, ricoverata a seguito di complicanze post-operatorie dovute a un intervento. La donna è stanca, le mancano le sue due bambine, la sua vita familiare, si sente fiacca e sola ed è proprio in questo stato d'animo che riceve una sorpresa inaspettata: sua madre. Lucy è più che sorpresa, non vede la madre da ormai molti anni e in un primo momento non si spiega la presenza di quel volto così noto, così amato ma così distante. La madre le rivela che è stato William, il marito di Lucy, a chiamarla, proprio per portarla a conoscenza della situazione della figlia e così ella, che mai aveva preso un aereo, ora si ritrova a New York, lontana miglia e miglia dalla sua casetta di Amgash, nell'Illinois. L'imbarazzo iniziale viene subito spazzato via proprio dalla madre, che rivolge un saluto alla figlia chiamandola con un vecchio vezzeggiattivo ("Ciao, Bestiolina!") e così Lucy si ritroverà liberata da ogni tensione e disagio. Costretta a letto, isolata dal resto del suo mondo abituale, Lucy non ha che un desiderio: ascoltare la voce della madre, riservata ma "inderogabile" (così definita dalla stessa Lucy) e passare del tempo con lei dopo tutti gli anni di separazione. Le chiede di raccontarle delle storie e la madre le riporterà fatti della rurale cittadina di Amgash che sono, in fin dei conti, dei pettegolezzi: ricordano Harriet, cugina della madre, la bella quanto povera Mississippi Mary, Kathie Nicely che aveva la disgrazia di non essere simpatica come il suo cognome faceva presupporre, chi esse abbiano sposato... Lucy è serena e vorrebbe che questo momento paradisiaco con la madre non avesse mai fine, ma invece durerà solo il tempo di cinque giorni e cinque notti, poi tutto tornerà come prima e la singolare ed eccezionale intimità creatasi non ingloberà mai più le due donne. Il libro vede l'incrociarsi di tre differenti piani temporali: il primo e più ampio ha per protagonista la Lucy sopra descritta, ancora giovane, madre di due bambine, ricoverata e con la madre in visita; nel secondo, Lucy è una donna più matura, ha divorziato dal marito e ha trovato un nuovo compagno, le sue figlie sono cresciute ed ella è un'affermata scrittrice; il terzo e ultimo mostra la difficile infanzia di Lucy, cresciuta in un ambiente povero, solitario e quasi anaffettivo, con una famiglia disfunzionale oppressa dalla miseria e dall'umiliazione. È durante la visita della madre che riemerge il passato di Lucy (il terzo piano temporale): dal suo letto d'ospedale, Lucy può ora guardarlo con uno sguardo diverso, più lineare, nonostante ella non riesca ancora a perdonare totalmente al padre la sua rudezza e i suoi feroci sbalzi d'umore (e alla madre di non aver saputo proteggere al meglio lei e i suoi fratelli), ma, malgrado ciò, la presenza della madre, la sua veglia silenziosa, il chiacciericcio futile sono di conforto alla giovane Lucy, che desidera sentirsi ancora una figlia e, in quanto tale, confortata, rassicurata e benvoluta. In un effluvio di ciance irrilevanti e in un altro di parole non dette, madre e figlia ricostruiscono il loro rapporto, ricordando quale sia la cosa più importante: volersi bene. Compagno della loro rinnovata intimità sarà lo scintillante grattacielo Chrysler che si vede dalla finestra d'ospedale, rappresentante di tutte le aspirazioni e ricchezze newyorkesi degli anni '80, contrapposte alla mediocrità del paese natìo di Lucy. Lucy, nel finale, è una scrittrice; ha scelto di parlare e raccontare la sua storia, nonostante sia quella di un amore un po' zoppo e incerto, ma decide di far proprie le parole della sua insegnante di scrittura Sarah Payne: «ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola». Onestamente, non ho trovato né che il romanzo fosse perfetto, né che toccasse tutte le corde del cuore. Il non-detto è un elemento ridondante, così come sono insignificanti molte delle parole scelte. Non ho percepito alcuna profondità - tanto decantata - e non penso che questo scritto della Strout valorizzi il suo talento narrativo. Il romanzo ha, però, il pregio di essere breve, oltre che scorrevole e leggero, quindi, in futuro, un altro tentativo con la Strout lo farò sicuramente.

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ROBERTA GIULIETTI
Recensioni: 5/5

Madre e figlia cercano di ricostruire il loro rapporto, dopo essere state lontane per anni : dal suo letto d'ospedale , attraverso le parole asciutte ed elusive della madre che la assiste, Lucy rivive un passato che credeva ormai superato , la durezza, la miseria, la fame , il dolore di un segreto vergognoso e la solitudine emotiva vissuta nell'infanzia e ne scrive a poco a poco , fino a costruire un magnifico romanzo dei sentimenti detti o inespressi , a partire dal legame più forte e duraturo ,quello che unisce sempre una madre e sua figlia . Coinvolgente come sempre la Strout, libro da non perdere.

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ROBERTA COCCO
Recensioni: 4/5

Il libro ruota attorno al rapporto tra madre e figlia, un rapporto difficile che ha dei conti in sospeso. Durante un periodo di degenza in ospedale della figlia, la madre compare per qualche giorno al fine di tenerle compagnia e da qui comincia una lunga conversazione che porta le due donne a parlare, raccontare, ricordare momenti più o meno difficili e dolorosi, personaggi e situazioni che hanno influito sulla vitadi entrambe e che in questo momento vengono tirate fuori, palesate. Un libro delicato, che lascia un pochino di amaro in bocca per la tristezza di certe immagini di vita che vengono anche solo accennate ma che hanno la forza di far immaginare storie non dette, trascurate o date per scontate.

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Recensioni: 4/5
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Elizabeth Strout

1956, Portland (Maine)

Vive a New York con il marito e la figlia, ed è originaria del Maine.Ha insegnato letteratura e scrittura al Manhattan Community College per dieci anni e scrittura alla New School. Suoi racconti sono apparsi in numerose riviste, tra le quali il «New Yorker».Con Amy e Isabelle (2000), acclamato da pubblico e critica, e vero e proprio caso editoriale, il suo primo romanzo, è stata finalista al PEN/Faulkner Prize e all'Orange Prize, e ha vinto il Los Angeles Times Art Seidenbaum Award per l'opera prima e il Chicago Tribune Heartland Prize. Con Olive Kitteridge (2009) ha vinto il Premio Pulitzer. Citiamo anche Resta con me (2010) e I ragazzi Burgess (2013). Tra le sue pubblicazioni con Einaudi Mi chiamo Lucy Barton (2016), Tutto è possibile (2017), Olive,...

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