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È Oriente - Paolo Rumiz - copertina
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Descrizione


Dalle Alpi svizzere al Salento, da Vienna al Mar Nero, dalla crosta delle montagne alle pianure incise dal serpente del Danubio, un lungo viaggio, anzi una serie di viaggi, per imparare a guardare e a sentire la spalla orientale dell'Europa. Il volume raccoglie scritti editi e inediti del reporter italiano, in cui convivono gusto per il viaggio e per l'andare (attraversando paesaggi, incontrando uomini, sondando umori), la fascinazione del racconto e della parola.
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Dettagli

2005
Tascabile
198 p., Brossura
9788807818295

Valutazioni e recensioni

SIMONE LUPERTI
Recensioni: 5/5

Viaggiare lentamente, viaggiare nello spazio ma soprattutto nella memoria e tra le genti. Viaggiare alla scoperta di un Oriente, oggi brutalmente etichettato come Est, ridotto a terra di conquista per delocalizzazioni industriali. Unici mezzi possibili: bicicletta, treno oppure macchina (ma esclusivamente in solitaria). Paolo Rumiz rinnega il giornalismo fatto solamente "di primi piani" per ritrarre uomini e comunità che sono tutt'uno con il paesaggio; il quale non è mero sfondo, ma fattore determinante per lo sviluppo delle culture locali. Impossibile trattenersi dal citare alcuni passi. «Ultimo pensierino nomade: fare sull'Italia un libro di viaggio con l'impianto di un orario aereo, con i chilometri al posto delle pagine. L'Italia ha un grande bisogno di un viaggio lento. Da noi si è smesso di viaggiare: ci si sposta. Così il mondo minore scompare e la memoria pure. Aveva ragione Pasolini, nessuno ascolta più le storie. I politici non sentono più le voci del paese profondo. Salvo sorprendersi, poi, quando i Serenissimi assaltano il campanile di San Marco. Il territorio è perduto e anche l'appartenenza. Per reazione ci si aggrappa ai punti cardinali. Ce n'è un'inflazione: Nord, Sud, Nordest, Nordovest, Grande Centro, ma sono parole vuote. Nessuno sa più cosa vogliono dire, sono surrogati dell'identità. E' l'ossessione che uccide i contenuti; il "dove" che schiaccia il "che cosa"» (pag. 26-27). «Tutto, in un viaggio lento, si riempie di simboli: la salita è penitenza, il bivio è scelta, il rettifilo introspezione. Il ponte è passaggio sicuro sull'acqua, sul pelago dell'incognito; e viaggiare, in fondo, è un po' navigare» (pag. 11). «Macché mausoleo di Lenin. Il più impressionante monumento al defunto Impero sovietico è il centro di smistamento treni fra Ucraina e Ungheria, sul gomito del Tibisco, a Záhony. Ci vogliono due ore per girarlo tutto in automobile. I riflettori bucano l'alba, illuminano montagne di carbone, centinaia di chilometri di binari, rampe, sollevatori, silos, depositi. Ogni cosa è colossale, fuori misura, da gulag. Tutto per novantacinque millimetri. Quelli che segnano la differenza con lo scartamento sovietico. Poi, alla fine, scopri che questa immensità è alimentata da un unico binario. Pensi che sia folle, che sia come riempire il mare con un contagocce. Ma il senso c'è. O meglio, c'era. Grazie a quell'unico cordone ombelicale, nulla sfuggiva alla polizia sovietica» (pag. 44). «Incontro il regista ebreo Aleksander Schlayen, presidente del comitato antifascista. Un uomo straordinario, vitale. Mi avverte con occhi febbrili:"Qui rischiamo una Chernobyl nazionalista. Al suo confronto la Iugoslavia sarà stata un gioco da ragazzi. C'è un'aggressività antica scritta nella nostra storia", spiega. "Da qualche anno i nazionalisti sono usciti dall'ombra. Già nell'88, con l'emigrazione dei primi ebrei, si è sfiorato il pogrom. Da allora le cose vanno di male in peggio". Chi finanzia i fascisti? "La diaspora negli Usa, che passa fondi agli ultras per tenere l'Ucraina lontana da Mosca". Per farmi capire, mi portano a vedere un'altra Chernobyl ancora, quella della memoria. Un altro sarcofago sigillato, sovraccarico di energia negativa. Sorge in periferia, in un posto che nessuno nomina volentieri: Babi Yar. Lì, dove finisce il viaggio, sull'orlo di una scarpata di betulle coperta di neve, gli Einsatzkommando sterminarono trentamila ebrei in soli due giorni. Stasera piove sul gigantesco monumento sovietico in bronzo e sulla rampa di cemento con gli eroi morituri a pugno chiuso. Sul prato fra le betulle dove a primavera i bambini giocano a palla, la strage fu consumata così in fretta che molti caddero vivi nella fossa e la terra si mosse per giorni. Oggi, nulla rivela che quelli non furono eroi, ma bestie macellate. Niente dice che nove assassini su dieci erano ucraini, non tedeschi. Soprattutto, nessuna scritta ricorda che le vittime erano ebrei. Per l'Urss non esistevano etnie né religioni. Alla fine, racconta Ryszard Kapuscinski, il comunismo era diventato un treno sgangherato senza più rotaie, un treno cieco e immobile che qualcuno faceva dondolare per dare ai passeggeri l'illusione del viaggio. Con il crollo del regime nulla cambiò. Proprio l'anno in cui la storia avrebbe dovuto mettersi a correre si rivelò l'anno in cui la storia si fermava, con grande stridore di freni, come un vecchio, squinternato convoglio. E' da allora che gli eventi sembrano diventati illusione e incantesimo, ci ammaliano e ci impediscono di capire, nascondendoci la verità. Anche qui, sulle sponde del Dnepr» (pag. 57-58)

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Paolo Rumiz

1947, Trieste

Paolo Rumiz è scrittore e giornalista triestino, inviato speciale del «Piccolo» di Trieste ed editorialista de «La Repubblica». Esperto del tema delle Heimat e delle identità in Italia e in Europa, dal 1986 segue gli eventi dell’area balcanico-danubiana. Nel 2001 invece segue, prima da Islamabad e poi da Kabul, l'attacco statunitense all'Afghanistan. Vince il premio Hemingway nel 1993 per i suoi servizi dalla Bosnia e il premio Max David nel 1994 come migliore inviato italiano dell’anno. Ha pubblicato, tra l’altro, Danubio. Storie di una nuova Europa (1990), Vento di terra (1994), Maschere per un massacro (1996), La linea dei mirtilli (1993), La secessione leggera (2001), È Oriente (2003), Gerusalemme perduta (2005), La leggenda...

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