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Elif Shafak: la democrazia, le donne, il velo. Intervista all'autrice turca

Elif Shafak è considerata una delle voci più importanti della narrativa turca. Ha all'attivo quindici libri, dieci dei quali sono romanzi. Uno di questo, La bastarda di Istanbul, le è costato nel 2006 una denuncia per offesa dell'identità turca. Assolta al processo nel 2011, ha ricevuto il sigillo della città di Milano lo scorso 17 novembre, in occasione della cerimonia di inaugurazione di BookCity.

Elif Shafak ha una figura alta e flessuosa, gli occhi verdi velati da una malinconia ereditata, forse, dalla terra natia. È lei stessa, infatti, a definire la Turchia “clinicamente depressa” e il tono di voce, quasi sussurrato, vibra di una nota dolente. Il suo ultimo romanzo, Tre figlie di Eva (Rizzoli), offre uno spaccato sulla società turca, ma racconta anche di identità, di femminismo, di religione. Quando la incontriamo, indossa un cappotto nero – il colletto alzato fino al mento – e ha i capelli legati, due ciocche laterali a incorniciarle il viso. Non esita a manifestare amarezza per la sorte del suo paese che, dice, sta scivolando all’indietro, ormai da un pezzo.
«Mi rattrista il fatto che la democrazia nella mia patria arretri. Dieci anni fa abbiamo avuto l’impressione che le cose andassero molto diversamente, ci è sembrato persino quasi possibile che la Turchia potesse essere accettata nell’Unione Europea. Il governo turco dell’epoca ha mancato di attuare le riforme che gli venivano richieste, ma l’opportunità è sfumata anche per via di certi politici europei che hanno respinto la Turchia, l’hanno allontanata. Da allora il nostro paese ha imboccato la strada dell’autoritarismo, del nazionalismo spinto e del conservatorismo religioso. Sono cose che non fanno bene a nessuno secondo me. Oltre a criticare le autorità politiche turche, si dovrebbe incoraggiare il nostro popolo a far propri i valori che sono al centro dell’Unione Europea.» 

Ma la responsabilità di questo arretramento non sembra soltanto della politica. «A un certo punto avevo pensato di intitolare questo romanzo “L’ultima cena della borghesia turca”, perché anche la borghesia è cambiata nel nostro paese, in qualche maniera è tornata indietro – nel senso che in Occidente storicamente la borghesia ha svolto in certe epoche, come la fine del feudalesimo, un ruolo progressivo nella società. In Oriente questo non è mai successo e quindi paesi come la Turchia hanno una fortissima tradizione dello Stato, che permea con i suoi meccanismi l’intera società. La borghesia turca di oggi non è più una voce indipendente rispetto all’ideologia che lo Stato porta avanti. Persino tra i turchi altamente scolarizzati sentiamo affermazioni correnti che vanno nella direzione del nazionalismo e dell’autoritarismo. Le scene della cena elegante nella villa sul Bosforo sono fra le più realistiche che ho messo nel libro, e restituiscono fedelmente le discussioni che ho sentito.» 

Shafak vive tra Londra e Istanbul, e non si dichiara religiosa. Come la protagonista del suo libro, oscilla tra Oriente e Occidente, ma Peri, a differenza dell’autrice, è musulmana, una musulmana indecisa, a dirla tutta, anzi, una “musulmana moderna”, che non tocca il maiale ma gradisce l’alcol, e che osserva il ramadan in modo più rilassato. Una larga fetta della popolazione turca ha ormai assunto questo atteggiamento.

«Il mondo musulmano non è un mondo monolitico, ci sono tante maniere di interpretare l’Islam e molte persone, ormai, cercano di conciliare la propria fede religiosa con la vita nella modernità. Sono cose che io osservo attentamente. Ho quindi cercato di riportare anche i dibattiti che gente normale in Turchia può fare a proposito di Dio, della religione, della libertà, della sessualità, dell’identità. Mi sembra molto importante che siano soprattutto le donne a porre questi interrogativi, perché se le nostre democrazie si smarriscono e c’è un ritorno indietro, sono loro che hanno di più da perdere in questa situazione.»

E di nuovo sono proprio le donne, nel libro, a interrogarsi sulla religione: in un brano Peri si chiede se sia la religione a dare autonomia a donne che, per il resto, hanno pochissimo potere, o se questa sia invece “l’ennesimo strumento studiato per assoggettarle”.

«La nostra è una società molto patriarcale. Le donne trovano spesso nella religione un senso di protezione, di sicurezza, persino di forza. Lo capisco, non sto dicendo che lo approvo ma lo capisco perfettamente. In tutta la Turchia, in tutto il Medio Oriente, anzi, in tutto il mondo ci sono donne come la madre di Peri (che hanno un sacco di paure, di timori di vari generi, anche segreti psicologici molto ben custoditi) che non hanno potere. La religione per loro rappresenta un rifugio.»

Non si può non nominare il velo, rivendicato da alcune musulmane occidentalizzate addirittura come un simbolo femminista. Ma Shafak è molto ferma: «Il mio lavoro di scrittrice è quello di ascoltare quante più voci diverse possibili. Penso che lo scrittore debba in primo luogo essere un buon ascoltatore, in secondo che debba porre domande difficili riguardanti tabù della società, della politica, della sessualità (le cose sottaciute e le cose messe a tacere), ma che poi debba lasciare la risposta al lettore o alla lettrice. A me non piacciono gli scrittori che hanno sempre l’aria di voler insegnare qualcosa, di voler giudicare. Il mio lavoro è dare voce a chi voce non ha, a chi è costretto magari al silenzio, e quindi ho voluto porre molti quesiti, compreso quello a cui lei accenna, cioè del velo islamico. Nel mio mondo ideale tutte le donne, indipendentemente da chi sono o cosa credono, dovrebbero essere a proprio agio con la propria sessualità. Comprendo che ci siano donne che indossano il velo, o perché costrette da qualche fattore o perché lo desiderano, ma non penso che vietarlo sia la soluzione, al contrario non può che peggiorare le cose e la storia ce ne dà ampia dimostrazione. La mia idea è che alle donne vadano aperte le porte della sfera pubblica, che vadano responsabilizzate. Tutte noi dovremmo creare un movimento, una sorellanza che rappresenti le donne, qualsiasi cosa pensino, che le protegga e ne difenda i diritti. Poi se lei mi chiede dov’è che metto i paletti, le dico che personalmente metto paletti, per motivi di sicurezza, sul velo integrale, quello che copre tutto il volto, e metto paletti, per altri motivi, nei confronti dell’imposizione forzosa del velo anche alle bambine: quando compi diciotto anni sei maggiorenne, fai quello che vuoi, io rispetto la tua scelta, ma per il bene comune penso che tutte debbano poter fare quello che scelgono.» 

Tra l’altro, le facciamo notare, i divieti sul velo che si sono visti in Francia non sembrano altro che una strumentalizzazione, un tentativo di affermarsi sulla minoranza islamica. Ancora una volta si usano le donne e il loro corpo per scopi politici.

«La Francia è un esempio molto interessante, in particolare per la Turchia che a un certo punto della sua storia ha adottato il modello francese di laicité, cioè la laicità imposta dallo Stato molto centralistico – quello turco come quello francese – a livello delle istituzioni, che è una cosa diversa dal laicismo che invece è una tendenza sociale. C’è quindi un’affinità tra il modello turco e il modello francese proprio perché la natura centralistica dello Stato in questi due paesi ha fatto sì che lo Stato a un certo punto abbia imposto una laicità istituzionale. Apprezzo molto il laicismo e penso sia una cosa straordinariamente importante soprattutto per le donne e quindi lo difendo, ma, come dicevo, questi divieti non fanno altro che fornire pretesti agli estremisti, mettendogli in mano uno strumento propagandistico impagabile.»

È paradossale soprattutto il fatto che la Francia vanti ideali di libertà, rischiando però di calpestare diritti fondamentali. Ma per quanto riguarda patriarcato e misoginia, forse Oriente e Occidente hanno molto in comune, a dispetto delle loro presunte differenze.

«Sembra che il genere umano non sia capace di imparare dagli errori del passato. Abbiamo poca memoria, e non dico soltanto in Turchia, una società che secondo me si fonda sull’amnesia collettiva, ma anche in Europa vedo che c’è davvero poca gente che riesce a trarre una lezione utile dal passato. Se cominci a suddividere le persone in categorie, a seconda dell’appartenenza nazionale, etnica, religiosa, e isoli tutte queste categorie, il mondo non diventa un posto migliore, diventa un posto più pericoloso. Questo lo sento e lo sostengo con tutto il cuore, quindi, al contrario, dobbiamo cercare di essere costruttori di ponti: incoraggiare la libertà, promuovere i diritti umani, delle donne, delle minoranze, e questo sia in Occidente che in Oriente, perché anche in Occidente certi diritti che noi diamo per scontati e acquisiti una volta per tutte si potrebbero anche perdere, se non vengono tutelati.» Come l’aborto in Polonia, le ricordiamo. «Per esempio, sì. Ma le donne in quel caso hanno opposto resistenza. E devono tenere a mente le battaglie che le loro madri e nonne hanno combattuto per la difesa, e certe volte la conquista, di questi diritti.»

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A cura di Federica Urso

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