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Intervista a Philippe Hayat: scrivere romanzi è un'impresa, e fare l'imprenditore è un romanzo.

Leggi la recensione a ""Momo a Les Halles""

Lei non nasce propriamente come scrittore di romanzi: come concilia le diverse attività che ha svolto e svolge tuttora?

Sono uno scrittore molto ""giovane"", anche se è tutta la vita che scrivo.
Ho cominciato a scrivere poesia e saggi, anche se i saggi avevano più un legame con la mia attività di imprenditore. Dopo gli studi ho dato vita ben presto a delle imprese, ma ho sempre scritto. E a forza di scrivere, mi sono accorto che avevo bisogno di scrivere sempre.
Così mi sono organizzato in modo da dedicarmi alla scrittura la mattina e da occuparmi dei miei affari nel pomeriggio.
Dopo tanti anni, questa è la regola che mi sono imposto.
Ho veramente due vite, anche se in realtà sono la stessa cosa, visto che quello che scrivo arricchisce la mia vita di imprenditore e quello che faccio arricchisce la mia vita di scrittore.

C'è comunque una differenza di stile fra poesia, saggi e romanzo: come ha raggiunto questo importante risultato?

Questa è davvero un'ottima domanda, perché è stata la mia più grande difficoltà. Il problema, quando si scrive poesia, è che si è molto teorici nell'esprimersi, visto che si utilizzano immagini e metafore e non c'è un vero e proprio filo narrativo. Spesso, la mia voglia di poesia ritornava mentre scrivevo il romanzo, rompeva lo scorrere della narrazione e distoglieva il lettore dall'azione. Così ho dovuto lottare contro questa mia tendenza.
Anche quando si scrivono saggi lo scopo è quello di provare qualcosa, di trasmettere un messaggio. Occorre avere un argomento che si sviluppa in un inizio, un'argomentazione e una conclusione. Il romanzo invece non deve provare nulla - il contrario sarebbe orribile -, deve solo raccontare una storia e dunque ho dovuto sforzarmi e dimenticare il mio desiderio di poesia e di saggi, dicendomi che ciò che conta nel romanzo è non rompere mai il filo narrativo con il lettore. E' un altro modo di scrivere e mi ci sono voluti da quattro a cinque anni per mettermi in quest'ottica. E' stato difficile, ma quello che voglio scrivere oggi sono romanzi: sono più romanziere che altro.

Lei ci ha detto che si è imposto un metodo, una disciplina: scrivere fin dalla mattina presto e svolge la sua attività di imprenditore nel pomeriggio. Ma cosa succede quando manca l'ispirazione?

Quasi tutte le mattine non ho l'ispirazione!
In effetti ci sono alcuni momenti magici in cui sono veramente nel racconto. Scrivo e so che è buono, so che non dovrò ritornarci sopra, che è proprio quello che volevo scrivere. Questo però succede una volta ogni tanto nel corso della scrittura di un romanzo e quando succede, sono sicuro che non ci sarà più nulla da cambiare. Si tratta sempre in generale, di passaggi importanti.
Più spesso, invece, ci sono i tentativi, c'è molto lavoro, perché anche se non c'è l'ispirazione, so che cosa voglio scrivere. Però sapere che cosa voglio scrivere e scriverlo veramente non è la stessa cosa! A volte scrivo, lascio lì, ci rifletto sopra e mi dico che non va, che c'è qualcosa che non è del tutto sincero e ci ritorno fino a che una piccola voce mi dice: ""Adesso va bene"". Non è solo questione di ispirazione, ma di molto, molto lavoro. Potrei dire che il lavoro di un romanziere è per il cinque per cento ispirazione e per il novantacinque per cento sudore. La vera ispirazione, per me, non è una disposizione tale per cui le cose succedono quasi da sole. La vera ispirazione fa sì che si arrivi ad essere il personaggio e che il personaggio fugga, così che succedono cose che lo scrittore non ha immaginato: è quando il personaggio si stacca dall'autore, vive una vita propria, ha una sua autonomia. Almeno questo è ciò che io intendo per ispirazione.

Parigi nel 1942Per quanto riguarda Momo a Les Halles, aveva un'idea generale e complessiva della trama oppure ha seguito strade impreviste?

Ciò che ho fatto, all'inizio, è stato riassumere la trama in una frase per avere il punto di vista della vicenda: ""Due ragazzi, orfani, attraversano la guerra, a Parigi, in mezzo ai pericoli"". Dunque, a questo punto, avevo il mio romanzo in mano. Poi ho declinato questa idea in quindici capitoli: il primo è la fuga dal loro appartamento, l'ultimo l'arrivo a New York.
Sapevo dove volevo arrivare e una volta fatto ciò, non ho stilato una ""bibbia"" dei personaggi a priori - non ho definito le loro caratteristiche e le loro azioni - ma mi sono chiesto quale capitolo avevo voglia di scrivere. Infatti ho cominciato con il quattordicesimo perché non volevo scrivere in modo sequenziale: volevo che ogni capitolo fosse una storia in se stessa, per evitare la monotonia.
In quel momento i capitoli erano quattordici; alla fine del romanzo li ho divisi ulteriormente per dare più ritmo, così che sono diventati quaranta.
E nel cominciare un capitolo, avevo solo una frase, non conoscevo la storia: sono stati i personaggi a scriverla.

Il quartiere di Belleville nel '43La Seconda Guerra mondiale ha ispiato numerosi scrittori, sia in passato, sia in tempi più recenti: perché ha scelto proprio questo periodo per il suo romanzo?

La Seconda Guerra Mondiale per me è un pretesto, un semplice contesto.
Non volevo scrivere né sulla Seconda Guerra Mondiale, né sulla Shoa: non era il cuore del soggetto, ma lo sfondo, come in una pièce di teatro.
L'elemento centrale è la storia di un ragazzo di quattordici anni che vede il mondo crollare, passa dall'infanzia all'età adulta e deve trovare la forza di reagire, cercando una ragione di speranza di fronte alla brutalità del mondo.

Perché è nelle situazioni estreme che si dà il meglio di sé?

Il meglio o il peggio. Perché, giustamente, questo periodo - da qui il mio interesse - fa ""uscire"" le personalità.
In Francia gli storici dicono che il cinque per cento della popolazione ha abbracciato la resistenza, dimostrando coraggio e la voglia di non rinunciare alla libertà; c'era un altro cinque per cento che è diventato collaborazionista, gente feroce, brutale che denunciava gli ebrei; il restante novanta per cento era costituito da persone passive, che non prendevano decisioni.
Con la loro passività, però, hanno accelerato la catastrofe: permettendo i crimini sono diventati altrettanto responsabili.
Inoltre, questo periodo ha qualcosa in più: anche se il pericolo e le tensioni mettono in luce la personalità dell'individuo, e anche se l'individuo è coraggioso, intraprendente come Momo, questo non basta.
Bisogna avere molta fortuna.
Ci sono state persone molto coraggiose che sono morte perché non hanno avuto fortuna: le qualità di una persona non sempre vengono ricompensate e questo aumenta la grande intensità drammatica di quel momento storico.Scene dall'occupazione nazista di Parigi

Anche se la Shoah non era uno dei temi principali del romanzo, alcuni capitoli importanti sono dedicati al campo di Drancy: come si è documentato?

E' stato più difficile scrivere la prima parte del romanzo su Les Halles, perché è stato tutto distrutto nel secolo scorso e ho dovuto cercare le immagini negli archivi storici.
Per quanto riguarda Drancy, invece, l'edificio esiste ancora e ho potuto andarci, guardare, ""mettermi in situazione"".
Inoltre, ci sono molte testimonianza di persone imprigionate lì, ho letto una ventina di libri.
Ho potuto descrivere esattamente ogni scala, ogni ufficio, ogni camerata.
Tutto è vero, persino le date dei convogli, tutto è rigorosamente preciso.
Invece le storie sono finzione e nel leggere tutti questi libri, mi sono reso conto che non ci sono romanzi ambientati in questo campo.
Il mio libro è il primo.Les Halles nell'ottocento. Disegno dell'epoca

Col passare del tempo, il ristretto ed esclusivo rapporto fra fratello e sorella si allarga in una specie di famiglia, fatta da tanti personaggi: ci può accennare come ha inteso questa evoluzione?

Quello che succede a Momo a quattordici anni è un po' una ""vita accelerata"". E' un ragazzo con una famiglia, con un papà e una mamma, che da un giorno all'altro diventa quasi il papà di Marie: deve proteggerla, deve occuparsi dei suoi studi, deve nutrirla, deve andare a guadagnarsi da vivere, diventa lui stesso capo famiglia. In seguito, con Bulle, la vicina, scopre il sentimento amoroso e, sempre molto giovane, ha quasi una vita di coppia.
Anche l'amore, evolve molto velocemente.
Intorno a lui ci sono poi persone che lo aiutano, ciascuna delle quali è un sostituto dei genitori: c'è il tipografo che lo prende sotto la sua ala per aiutarlo a far liberare i genitori; le persone delle Halles, che gli insegnano il commercio, che gli insegnano un mestiere; la gente di Drancy che veglia su di lui, che lo inizia alla religione o alla rivoluzione.
In tutto il libro Momo riunisce attorno a sè papà sostitutivi ed è questo il suo modo di diventare grande, malgrado tutto.Una scena dall'occupazione

Circa il personaggio di Bulle, ho apprezzato il fatto che lei non abbia approfittato della sua natura per dilungarsi in scene di sesso, come qualche altro suo collega avrebbe certamente fatto...

E' vero, ma diciamo che ha molte cose da dire anche lei.
Perché quando si pensa allo spirito, alla domanda che percorre tutto il romanzo, ovvero ""qual è il senso di questa vita ?"" - che può essere brutale e ingiusta - tutti i personaggi che Momo incontra danno una risposta.
Forse è proprio Momo il solo a non rispondere mai a questa domanda, ma assorbe attorno a lui le differenti risposte.
Quello che volevo esprimere era che, nonostante il suo mestiere, anche se non ha studiato ed è completamente incolta, anche se si esprime in un argot parigino, ha comunque una visione della vita che merita di essere raccontata, ha una certa saggezza.
Ed era questa saggezza che volevo esprimere, piuttosto che il suo mestiere o le sue relazioni amorose.

L'intraprendenza di Momo negli affari anche in un periodo così difficile come la guerra può essere un messaggio ai giovani di oggi, in tempo di crisi?

Sì, è possibile proiettare Momo ai nostri tempi.
Il primo messaggio che si può dare ai giovani d'oggi è che hanno la fortuna straordinaria di vivere in un mondo di pace, mentre ci sono bambini che non hanno potuto crescere.
Vivono in un'Europa in pace e, anche se ci sono altre minacce, almeno globalmente, un bambino di oggi può ""costruirsi"".
Il secondo messaggio è che, nonostante tutto, viviamo in paesi straordinari, belli, dove c'è libertà, con una buona qualità della vita, anche se c'è la crisi e la disoccupazione.
Il terzo messaggio è che quando l'avvenire è difficile, la miglior risposta che si può dare è tornare a concentrarsi su se stessi, cercare i propri talenti, le proprie passioni, costruire un progetto che ci assomigli. E poi diventare imprenditori della propria vita: in questo modo tutto diventa più facile, perchè sappiamo perchè ci svegliamo la mattina, sappiamo che cosa ci fa crescere.

Alla luce della sua esperienza personale e di Momo, imprenditori si nasce o si diventa?

E' una domanda difficile.
Ci sono quelli che sono imprenditori ""naturalmente"": ci sono cioè delle personalità che non possono accettare di obbedire a qualcuno, che sono autonome, indipendenti, ottimiste, perseveranti: queste sono le qualità di un imprenditore.
Per contro, ci sono molte persone che ignorano di esserlo: perché è qualcosa che si può anche coltivare.
Se non si cresce in una famiglia di imprenditori, non si ha questa educazione e spesso non si sa di esserlo nel profondo. In questo caso occorre provare, riprovare, anche dopo qualche fallimento: il successo non arriva sempre subito. Ci sono persone che si scoprono imprenditori, tutti però possono avere l'ambizione di portare avanti un progetto che è nato dal coraggio di ascoltare se stessi. E' per questo che ho dato vita ad un'associazione che invia nelle scuole imprenditori che spiegano ai ragazzi: ""Io l'ho fatto, perché non potreste anche voi?"". Uscirà in primavera un saggio su questo argomento, i giovani e l'imprenditoria, ma il mio editore vuole che scriva un altro romanzo!

Intervista di Lidia Gualdoni 


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