Le interviste di Wuz.it

Intervista a Silvia Avallone: acciaio e amore

Fotografia di (c) Stefano Lorefice

INTERVISTA ESCLUSIVA WUZ.it - I rumors danno Silvia Avallone come favorita per la vittoria del prossimo Premio Strega. In rete e non solo si è parlato molto di lei. Noi abbiamo scelto di parlare con lei. È da poco uscito il suo romanzo d'esordio Acciaio, pubblicato da Rizzoli, su un'Italia in cerca d'identità e di voce, uno squarcio su un'inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più...

Silvia Avallone, un nuovo romanzo nella testa


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Perché hai ambientato Acciaio a Piombino? Che rapporto hai con questa città?
Ho vissuto a lungo in questa città, che ha sempre esercitato un fascino su di me, specialmente in virtù della presenza imponente dello stabilimento siderurgico Lucchini-Severstal. Sono cresciuta anche con persone che lavorano l’acciaio, e tenevo a raccontare alcune storie che ho ascoltato con le mie orecchie. Detto questo, Acciaio non è un romanzo su Piombino. Via Stalingrado è un luogo inventato. Ci tenevo a parlare della provincia italiana industriale, un pezzo non trascurabile del nostro Paese, anche se in tv viene totalmente taciuto.

Il ruolo della donna: i personaggi delle due madri, seppur diversi tra loro sembrano implodere entrambi in un destino nichilista. Perché?
Non mi piace la parola nichilismo, e non ho inteso rappresentare una deriva verso il niente: tutt’altro! La miseria, la sofferenza, non mancano di vita e di forza. MI È SEMPRE PIACIUTA LA LETTERATURA CHE RACCONTA I VINTI, GLI UMILI, I DIMENTICATI. Ho sempre amato della letteratura questo: che offre una voce a chi di solito non ce l’ha. E ho trovato, nei libri come nella vita, grande dignità e umanità in chi vive ai margini, o comunque al di fuori della rappresentazione sociale idilliaca che ogni paese vorrebbe dare di se stesso. Le donne di Acciaio sono donne reali, che non corrispondono allo stereotipo della donna emancipata in carriera che va di moda, ma che esistono. Ho semplicemente scelto da che parte stare, visto che non si può dire tutto: ho testimoniato una cosa anziché un'altra.

Il lettore è spinto a tifare per l'amore saffico delle due ragazze. Anche se etero. Questa versione universale dell'amore è la salvezza?
Qualunque interpretazione di un testo è lecita. Qui posso solo dire la mia intenzione mentre seguivo, scrivendolo, l’evolversi del legame tra Anna e Francesca. Non si tratta tanto di un rapporto omosessuale, quanto di un’amicizia che per via dell’età (l’adolescenza: uno spazio di tempo potenziale, di trasformazione e di curiosità), e per via della particolare durezza della realtà con cui le due protagoniste devono fare i conti, è paragonabile a un amore. AMORE IN SENSO AMPIO, CHE SFUGGE ALLE ETICHETTE. Ho tentato di rappresentare un legame, un’alleanza, una complicità che rifiutano una definizione definitiva. Spesso, descrivendo alcune loro tenerezze, ho pensato più a un senso materno dell’una verso l’altra, che ad altro.

Quanto c'è di autobiografico in Acciaio?
Di autobiografico in Acciaio non c’è niente. Ci sono storie e realtà che ho visto, che mi stavano a cuore. Ma la letteratura non serve a parlare di se stessi, a mio avviso.

La scena delle Torri Gemelle. Davvero tutto scivola addosso a questa generazione?
La scena delle due Torri è una scena a cui ho assistito davvero, anche se poi nel romanzo ho un po’ calcato le tinte. Scrivendo quel capitolo non intendevo affatto affermare che le tragedie della storia scivolano addosso oggigiorno all’opinione pubblica. Anzi: posso testimoniare il contrario. Quell’episodio del 2001, anche in provincia, ce lo portiamo tutti inciso bene bene nella memoria. La mia generazione non credo sia più superficiale di una generazione passata. Forse, siamo meno ideologici rispetto a chi ci ha preceduto. Con quel capitolo ho voluto semplicemente raccontare come la grande storia può venire concretamente recepita in un piccolo bar di provincia. Non parto da un concetto quando racconto, né tanto meno da un giudizio, bensì da quello cui ho assistito.

Si parla di te come finalista del Premio Strega. Che sensazione si prova?

Sinceramente, certe notizie che girano mi sembrano bolle come quelle finanziarie o di sapone. La mia sensazione è sempre la stessa: che sono all’inizio. Che ho pubblicato una raccolta di poesie, un romanzo, e la strada è molto lunga. PENSO AI LIBRI: ALL’UNICA COSA CHE HA VALORE E SOSTANZA. Ne devo ancora leggere tanti, ne voglio ancora scrivere, e con lo stesso entusiasmo con cui ho scritto Acciaio. Con la stessa convinzione: che ogni volta che si apre una pagina bianca si è ancora dilettanti.

A questo proposito qualcuno ha storto il naso davanti alla sovraesposizione mediatica del tuo romanzo (più o meno quello che è accaduto per Giordano e D'Avenia): che ne pensi?
Penso questo: che i libri è bello scriverli, è bello farsi il mazzo per un mese su un capitolo e poi parlarne con gli amici al bar, con la stessa premura di quando racconti un episodio della tua vita. TUTTO QUEL CHE VIENE DOPO LA PUBBLICAZIONE È MOLTO MENO BELLO, E MOLTO MENO VERO. Poi, di fronte a ogni libro che vedo, penso sempre che se è un libro onesto, dietro c’è un gran lavoro: energie, ansie, anni di impegno, e per questo provo un grande rispetto. I media arrivano, passano. Invece il tempo speso per un lavoro resta, se non altro nella vita dell’autore, ed è un’esperienza capitale. Qualcosa che prima non c’era e adesso c’è: un oggetto che occupa spazio. I media hanno un altro statuto di verità, per quanto mi riguarda.

Hai scritto su Anna Magnani. Come è nato l'interesse per questa attrice?
Mi fu proposto di scrivere un ritratto di Anna Magnani come donna, più che come attrice, ed io accettai con molto entusiasmo. Insieme ad Elsa Morante, è per me tra le figure femminili più alte del ‘900 italiano. Un’artista che ha sempre fatto onestamente i conti con la vita, che ha sempre posto il suo mezzo espressivo a servizio della realtà del suo tempo, e non appena di se stessa. Le donne che ha incarnato sono vere, pienamente umane e non personaggi: sono ingiudicabili, nella misura in cui non le si può definire tout court buone o cattive. La sua risata indimenticabile è come il riso carnevalesco di cui ha parlato così bene Bachtin: quel riso che sta alla radice, la gioia sofferente dello stare al mondo. 



*si ringrazia per la gentile collaborazione Annalisa Veraldi



15 febbraio 2010 Di Francesco Marchetti

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