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Intervista a Oscar Farinetti, il mercante di utopie


Una bella conversazione con l'inventore di Eataly, il più grande mercato enogastronomico al mondo  che fa della qualità il proprio punto di forza. Protagonista della biografia a lui dedicata da Anna Sartorio, Il mercante di utopie, Farinetti ha saputo applicare al business un sistema di valori da cui non prescinde, dimostrando come il successo può sorridere anche a chi sa rispettare la propria coscienza e salvaguardare i rapporti umani. Un imprenditore che ha compiuto il miracolo di far dialogare concretezza e utopia.

Nelle pagine di Wuz: L'appetito vien leggendo


Foto di Bruno Musso


Ho letto il libro che racconta la sua storia e mi ha colpito moltissimo il ruolo, il peso che ha avuto la figura di suo padre e delle sue radici. Ci parli dell’importanza che ha avuto appunto per lei la famiglia.


In generale io noto sempre che nella gente perbene, nella gente normale il legame con le radici, con il padre, con la famiglia, esiste, esiste anche a prescindere dalle cose che ha combinato quel padre nella sua vita. Nel mio caso si è trattato veramente di un padre straordinario perché è stato un eroe; ha avuto la fortuna e il coraggio di vivere diciotto mesi straordinari che gli hanno segnato la vita. È stato un comandante partigiano della Brigata Matteotti e per tutto il resto della vita ha portato avanti queste esperienze, questi ricordi, applicandoli alla vita civile. Inculcandomi i valori che ha imparato quando aveva ventidue, ventitrè anni mi ha insegnato moltissime cose. Per cui, nel cercare di raccontare come si è svolta la mia vita di business, di lavoro e il ruolo che ha avuto mio padre, mi sono addirittura autocensurato.

Se non avesse fatto l'imprenditore quale lavoro avrebbe voluto fare?

foto di Bruno Musso
Uno dei mestieri che mi sarebbe piaciuto fare era la politica, la polis, che io ritengo l’arte suprema, l’arte del governo.
Io considero che la politica debba essere il mestiere dei mestieri, il più importante, fatto dai migliori, e non ho fatto quello per due ragioni: uno perché non mi sentivo uno dei migliori e poi perché non reggevo quel tipo di ambiente, era pieno di paraculi di ogni tipo e notavo che avevano molta più facilità di me a crescere. Allora ho cercato di applicare questi concetti, che sono sostanzialmente politici (l’arte del governo), nel lavoro e me li ha insegnati tutti mio papà, per questo è pluricitato; poi ci sono le radici del territorio, io sono nato ad Alba, in mezzo alle langhe, terra di molti vini doc, del tartufo, dove l’agroalimentare ha segnato fortemente la storia e le tradizioni. Fin da bambino non si parlava d’altro ed è un luogo dove c’è ancora un retroterra contadino fortissimo e mi piaceva, mi piace talmente vivere dalla mie parti che (ne) ho sempre sentito la presenza forte dovunque io fossi.


Mi sembra che l’elemento etico abbia dominato il suo successo…

Foto di Bruno Musso
Con alcuni miei amici, che sono più intellettuali di me, sono scrittori, uno di questi è Nico Orengo, vorremo fare un libro con scritto “Le parole da abolire” e tra queste vorremmo mettere l’etica, nel senso di parole di cui si abusa: perché ora, spesso a sproposito, molti imprenditori si dichiarano etici. Per quanto mi riguarda, determinati valori che fanno parte della mia vita, li pratico anche nel mestiere. Non penso che si possa fare la carità, fare cose belle nella vita privata, dare i soldi ai poveri, eccetera e poi magari essere dei bastardi con i propri collaboratori durante il lavoro, non ha senso. Penso ci debba essere una linea di comportamento unica, anzi a volte riesco a esprimermi persino meglio nel lavoro. Ho la netta convinzione che la vita sia un film a lieto fine, ho questa visione positiva, per cui mi comporto bene anche perché così... guadagno di più.


Nei fatti ha dimostrato che un buon imprenditore può anche mantenere dei principi solidi e avere successo.

Assolutamente si, questo fattore incide molto e incide su tutto.

Foto di Bruno Musso
Un altro elemento che ha caratterizzato fin dall’inizio la sua professione è stata la capacità di comunicare ed è una comunicazione molto diretta, molto semplice, immediata.


Sì, perché per me comunicare, o chiamandolo in mondo più volgare, fare la pubblicità, non deve mai essere promettere, ma parlare al presente, parlare utilizzando anche il modo di parlare che c’è fra di noi in azienda, non esprimere solo le proprie forze, ma le nostre speranze e, perché no, i nostri punti di debolezza. Quindi la comunicazione prima in UniEuro e poi in Eataly si è sviluppata attraverso questo concetto. Lanciando cosa? Cercando di caricare gli oggetti che vendevamo (prima erano gli elettrodomestici, oggi qualcosa di molto più importante, il cibo), di valori immateriali, ma veri, reali. Per quanto riguarda il cibo, c’è il tema della salute, dell’ambiente, il tema del vivere meglio, perché il cibo diventa il nostro corpo. Per quanto riguarda gli elettrodomestici c’è il tema che alleviano la fatica, che danno gioia, musica, visione, ci collegano col mondo, fanno comunicare... Quindi ho sempre cercato di parlare di questi temi in modo informale e diretto e ha funzionato.

 Mi ha colpito la sua scelta nei confronti dei figli che mi sembra molto irrituale: in genere si pensa di lasciare in eredità quello che si è già costruito, non di cambiare in corso d’opera, in pieno successo, perché si vuole che i figli siano maggiormente coinvolti.

Gli imprenditori, le persone in genere, ma gli imprenditori in particolare soprattutto quelli di successo, commettono secondo me due tipi di errori nei confronti dei propri figli: il primo è la pretesa che i propri figli debbano assolutamente fare gli imprenditori come loro e continuare l’attività; il secondo, molto peggiore, è che a volte vogliono più bene alla propria company che ai figli e quindi li mettono anche in situazioni difficili, gli fanno fare delle figure di merda e godono quando i collaboratori dicono: “certo che ai tuoi tempi era diverso…”. Io voglio più bene ai miei figli che alla company per cui, quando loro hanno deciso di fare questo tipo di mestiere, io ho preferito cambiarlo. Così ho voluto che partecipassero all’esordio del mio nuovo progetto perché è molto diverso partecipare a un’apertura, all’inizio di un progetto piuttosto che prenderne uno già fatto.


Infatti, questa mi sembra una scelta molto acuta, molto intelligente.

E poi però sono cavoli loro perché decideranno loro come portarlo avanti. Bisogna pensare che magari lo faranno meglio di me, ma non è che lo debbano fare meglio o peggio, lo faranno come vogliono loro

Faranno un’altra cosa, con la loro personalità.

Certo.
Carlin Petrini - Foto di Bruno Musso
Che importanza ha avuto nella sua vita l’amicizia con Carlin Petrini che lei conosce fin da quando aveva quindici anni?


Notevole perché Carlin mi ha insegnato a mettermi in un rapporto diverso con il cibo, è stato il primo a farmi capire che il cibo è l’unico bene di consumo che noi mettiamo dentro il nostro corpo e non fuori e quindi è molto più importante di tutti altri. Mi ha fatto capire che dietro al cibo c’è un mondo di cultura, di tradizioni, di valori, che alla fine è politica. Mi ha fatto capire che esiste questa cosa pazzesca per cui l’unico imprenditore che non può costruire il proprio listino, non può fare il prezzo è il contadino, l’unico imprenditore che produce il bene più importante dell’umanità, quello che mettiamo dentro al nostro corpo, non riesce a fare il prezzo dei prodotti che costruisce, ma glielo fanno gli altri, i mercati. Riflettiamo: quale produttore c’è che inizia a costruire un bene e non sa a che prezzo potrà venderlo? È terribile.
Lui mi ha fatto prendere coscienza di queste cose. Io ho questo spirito imprenditoriale, di business dentro di me e ho cercato di tradurre in pratica queste idee.


Mi sembra molto interessante che lei metta in opera quello che viene tanto detto, che il cibo va preso a km zero, cioè non dall’altra parte del mondo cosa che ha un costo di energia fortissimo.

Assolutamente sì. Tuttavia intorno a questo tema desidero fare un po’ di chiarezza perché non bisogna nemmeno diventare integralisti e non bisogna fermare la libera circolazione delle merci. Io non la penso come Grillo che dice che dobbiamo scambiarci le ricette anziché i prodotti. Il tema è questo: dobbiamo fare attenzione, prima di tutto dobbiamo mangiare i prodotti di stagione e così risolviamo già una valanga di problemi sull’ambiente, logistici, eccetera e poi godiamo di più perché sono più buoni. Secondo, dobbiamo cercare di mangiare prodotti del territorio, di stagione e del territorio, perché arrivano più freschi sulla nostra tavola, fanno meno strada e risolvono i problemi, soprattutto per quanto riguarda il mondo della frutta e verdura del paese Italia, che è ben coperto. Tuttavia, a me ogni tanto viene voglia di mangiare un po’ jamon iberico, il prosciutto quello buono, qualche volta un foie gras francese, e magari anche due bollicine francesi, e lo faccio perché come noi di Langa siamo ad esempio in Cina, in Giappone, avendo il nostro Barolo, il nostro Barbaresco e desideriamo venderglielo e ce la mettiamo tutta, ed è giusto che sia così perché è un prodotto straordinario e così magari anche gli altri desiderano vendere delle cose a noi. Il problema grosso è non mangiare le arance d’estate, magari viene anche un po’ di voglia, ma le arance in Italia si mangiano d’inverno…
Quindi assolutamente d’accordo sul discorso dei prodotti del territorio, senza esagerare, senza estremismi e senza interrompere la libera circolazione delle merci.


Mi ha colpito una pagina triste del libro, quando si parla di quanto sia stato male per l’incidente in  cui è morto un operaio nella costruzione di Eataly. Mi sembra importante che, in un momento come questo in cui gli incidenti sul lavoro sono così frequenti, un imprenditore viva con tanta angoscia quello che è successo, indipendentemente dalla sua responsabilità.

Foto di Bruno Musso
Sì, perché ti senti un colpevole indiretto: se non avessi fatto questa scelta… Poi approfondisci, cerchi di capire chi era questo ragazzo, vai a trovare i genitori e ti trovi davanti una famiglia distrutta e ti senti un cane; come si fa? Non è possibile non stare male di fronte a una tragedia come questa. Perdere un figlio è la cosa più brutta che possa capitare, per una mamma perdere un figlio penso sia un dolore insopportabile, il più grande.


La sede torinese di Eataly è splendida, ma ho letto che aveva più ipotesi in campo, perché ha scelto quella?
L’ho scelta perché aveva tutte le caratteristiche giuste per quel tipo di attività. Era una vecchia fabbrica di Vermouth, dove è nato il Vermouth Carpano, quindi c’era già una memoria alimentare; e poi l’atmosfera al suo interno è quella delle vecchie fabbriche dublinesi, con i mattoni a vista e io volevo fare una cosa un po’ diversa dai tanti non-luoghi, dagli ipermercati imperanti, queste scatole di cemento armato. L’ho scelta perché era di fronte al Lingotto, un centro commerciale dove c’erano già molti negozi e una sala multicinema, perché di fronte a noi c’è un Pam, un supermercato, quindi non vendendo Eataly mangiare per animali, per la pulizia della persona e della casa, carta igienica, detersivi… uno può completare la spesa senza muovere l’auto e poi c’è un grande parcheggio, no parking no business!

03 dicembre 2008 Di Grazia Casagrande

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