Le interviste di Wuz.it

Intervista a David Benioff

 Per singolare coincidenza lo scrittore americano David Benioff si trova a Milano, per presentare il suo nuovo romanzo La città dei ladri, proprio negli stessi giorni in cui è presente anche Spike Lee, regista dell’adattamento cinematografico del libro precedente di Benioff, La 25a ora, e adesso del molto discusso Miracolo a Sant’Anna. Coincidenza singolare anche che sia il film di Spike Lee sia il libro di Benioff trattino della seconda guerra mondiale. Noi abbiamo intervistato lo scrittore americano, iniziando dall’invenzione del ‘falso’ nonno che racconta la storia.


Ho letto che Lei ha già rivelato che il nonno che racconta la storia in realtà non esiste: eppure lo aveva reso così credibile! Qual è la sua funzione, allora? Perché fare raccontare la storia a lui?

In realtà non c’è nessuna strategia narrativa dietro la figura del nonno, non sono un calcolatore e sono incapace di preparare una tattica di scrittura. Avevo avuto questa idea dei ragazzi che dovevano procurarsi una dozzina di uova e mi sembrava la maniera giusta di raccontarla, di far sì che un nipote andasse a far visita ai nonni in Florida e ascoltasse questa vicenda. E poi è venuto naturale, piuttosto che inventare degli altri nomi, di diventare io stesso quel nipote. I miei nonni  erano morti da poco e io provavo un certo rimpianto per non averli interrogati prima. È quello che accade a molti, di desiderare troppo tardi di sapere di più sulle vicende di famiglia, spesso è una curiosità che viene quando i nonni sono scomparsi per sempre. C’è quindi anche un certo senso di colpa che mi ha spinto a inventare questa storia, anche se non è quella di mio nonno.

Bene, dunque non c’è un nonno vero che le ha raccontato la storia. Ma, vivevano a Leningrado i suoi nonni? Quando sono emigrati negli Stati Uniti?

No, non sono neppure stati i miei nonni a nascere in Russia e a emigrare, ma i miei bisnonni - quindi alla fine del secolo XIX. E la famiglia di mio padre veniva dalla Romania e quella di mia madre dall’Ucraina, da Kiev.

Se la famiglia di suo padre veniva dalla Romania, come mai il suo cognome è russo?

Perché ho scelto di portare il cognome di mia madre. Quello di mio padre, Friedman, non è neppure il vero cognome che la famiglia aveva in Europa -che era Tabachman. Era il cognome che gli era stato, per così dire, imposto all’immigrazione. Quindi non abbiamo mai sentito questo cognome come veramente nostro, non c’è mai stata una profonda connessione con il cognome Friedman.

E quali sono i suoi sentimenti verso la Russia? È mai tornato sulle tracce della sua famiglia? Riconosce qualcosa di russo nella sua indole?

Sono andato a Kiev e mi sono fermato là un po’ di tempo, ma devo dire che non ho provato nulla, non ho avuto la sensazione di un ritorno a casa. Per quello che riguarda il sentirmi russo - mia madre è un’amante della letteratura russa e io sono cresciuto tra questi grandi libri. Sento più un legame con la letteratura che con la gente. D’altra parte non è rimasto più nessuno in Russia della mia famiglia, mentre ci sono tantissimi Benioff negli Stati Uniti - tutti parenti, più o meno vicini. Ma la letteratura russa… penso che sia la più grande letteratura del mondo.

Ho letto il libro di Salisbury sull’assedio di Leningrado a cui lei fa riferimento nel romanzo e posso capire come quel testo possa averla aiutata a ricostruire l’ambiente. Ma lei cita anche Kaputt di Curzio Malaparte: in quale modo le è stato utile il libro di Malaparte?

Perché non è facile, almeno negli Stati Uniti, trovare qualcosa sulla guerra vista dalla prospettiva dei tedeschi. Da bambino, quando studiavo la storia della seconda guerra mondiale, l’accento veniva messo sul D-Day, come se quella fosse stata la battaglia che aveva cambiato il corso della guerra. Solo più tardi ho potuto avere un approccio più profondo e ho scoperto che le cose andavano già male per i tedeschi al tempo del D-Day, che l’inversione era incominciata con la disfatta di Stalingrado. Ma la maggior parte dei libri è scritto dal punto di vista inglese o americano. Malaparte fu uno dei pochi giornalisti che poté viaggiare con i tedeschi e vedere da vicino l’operazione Barbarossa. Malaparte aveva capito l’assurdità della guerra, descrive la guerra in maniera grottesca ma anche tremendamente vera: è stata una lettura ispiratrice dal punto di vista artistico per me.

Sia La città dei ladri sia il romanzo precedente, La 25a ora, raccontano delle storie chiuse in un limite di tempo ben preciso: un giorno e una notte ne La 25a ora, cinque giorni nel nuovo romanzo. Questo limite temporale ben preciso la aiuta in qualche maniera a costruire la storia?

Sì, penso proprio di sì. La tecnica del romanzo non mi viene naturale, per me è una lotta strutturare la trama. Prima de La 25a ora avevo scritto un libro che non è mai stato pubblicato ed era un romanzo fiume, che si allargava senza limiti. Dopo di quello ho preso la decisione di scrivere una storia compressa in un definito arco temporale. Uno dei miei romanzi preferiti è Per chi suona la campana, in cui si sa fin dall’inizio che la vicenda durerà fino al momento in cui viene fatto saltare il ponte.

L’eroe del romanzo non è il suo presunto nonno, ma l’amico Kolja: perché questa scelta? E perché mettere il libro dentro il libro, Il segugio nel cortile da cui Kolja cita di continuo?

Non so se Kolja sia l’eroe del romanzo, è più eroico e più carismatico. Un altro dei miei romanzi preferiti è Il grande Gatsby: un’altra storia in cui il narratore non è il vero eroe e non è il soggetto della vicenda. Tanto per cominciare è più facile scrivere di qualcuno carismatico che non dalla prospettiva di una persona del genere. E’ più facile perché nessuno di noi è un eroe nella realtà, perciò mi veniva più naturale. Quanto al libro dentro il libro - è stata una combinazione di diverse idee: avevo l’idea di un personaggio che cerca di scrivere un libro, ma ha paura che possa avere un’accoglienza negativa. E mi piaceva il contrasto tra il coraggio fisico di questo personaggio e la paura di ammettere che ha scritto un libro. Anche ne La peste di Camus c’è un personaggio che scrive solo le frasi di apertura di un romanzo…

Kolja però scrive di più delle semplici frasi di apertura, anzi il suo è un romanzo molto intrigante: potrebbe continuarlo lei e farne il suo prossimo romanzo.


Sarebbe un’idea, perché no?

A proposito del prossimo romanzo. Dopo tutte le ricerche che ha fatto, sfrutterà ancora il filone delle storie raccontate dal nonno fittizio?

Non credo proprio che il prossimo sarà un altro romanzo storico: sono pigro e questo libro mi è costato molte ricerche. È vero che potrei sfruttare le ricerche fatte, ma ho anche dimenticato tante cose…

Anche questo libro diventerà un film? Il soggetto si presta magnificamente…

Non lo so, per il momento non posso neppure pensarci: sono troppo vicino a questi personaggi e non riesco a pensarci. D’altra parte, se si dovesse fare un film, vorrei essere io a scriverne il copione e anche a fare il regista.

La recensione di ""La città dei ladri""

23 ottobre 2008 Di Marilia Piccone

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